domenica 27 aprile 2014

Di Balrog e di ali

Da che mi son dato al mio progetto di conversione della miniatura del balrog in assetato disangue, mi è capitato più volte di dire agli interessati che suddetta miniatura mi piace tantissimo – per quanto non la consideri assolutamente un balrog adeguato. Molti probabilmente considerano questa un'eresia: il balrog GW è una fedele resa del balrog che si vede nella trilogia cinematografica de Il Signore degli Anelli, dopotutto.
Il fatto è che la mia esperienza tolkieniana predata di parecchi anni l'uscita dei film, e con l'andar raffinandosi della mia pignoleria filologica è andata sempre più discostandosi dalla lettura dei romanzi che ci viene offerta sul grande (e piccolo) schermo. Uno dei punti fondamentali di questa frattura è quello relativo all'eterna diatriba: i balrog avevano le ali, sì o no?

[premessa: segue pippone immane]


La questione è stata trattata tante volte e da tante persone, più o meno autorevoli (mi vengono in mente i cerchiobottisti del “i balrog hanno le ali ma non sanno volare”, veramente meritevoli di tessera DC honoris causa con bizantino bacio accademico), ma penso che possa ancora dare un mio contributo aggiungendo qualche piccola riflessione personale alla querelle.
In ogni caso, non posso prescindere dall'aprire la questione con un riferimento alla trattazione della questione fatta sull'Enciclopedia di Arda.

Riassumendo per i non anglofoni, la questione "ali del balrog" nasce sostanzialmente da due passi de La Compagnia dell'Anello*, due passi del quinto capitolo del libro secondo per la precisione (pagina 322 della mia edizione).
Nel descrivere il balrog (anzi, il Balrog), Tolkien dice infatti che:
"(the Balrog) halted again, facing him, and the shadow about it reached out like two vast wings."
In traduzione personale:
"(il Balrog) si fermò di nuovo stando dinnanzi a lui, e l'oscurità attorno a lui si dispiegò come due ampie ali."
In seguito, però, è scritto:
"... it stepped forward slowly on to the bridge, and suddenly it drew itself up to a great height, and its wings were spread from wall to wall.."
Ovvero: "... avanzò lentamente lungo il ponte, e d'improvviso si erse a grande altezza, e le sue ali si estendevano da parete a parete... "

Per i sostenitori del Balrog alato, qui c'è tutto quel che serve: poco importa che nel primo caso ci sia un "like" a identificare le ali come meramente metaforiche, in seguito le ali sono "its wings", "le sue ali", senza niente che possa rendere tali ali immateriali o metaforiche o comunque non concrete. I più scrupolosi dal punto di vista filologico si spingono poi a citare un passo da The History of Middle-earth in cui, riferendosi ai Balrog, Tolkien scrive che si muovevano "with winged speed", "con alata velocità".
Per costoro, con questi passi, il caso è chiuso: i balrog (volutamente minuscolo) avevano le ali. Che le sapessero o potessero usare, però, resta tutto un altro paio di maniche: perché in tutti i casi in cui in Tolkien compaiono dei Balrog appare evidente che loro non sono in grado di volare. Il Flagello di Durin stesso non solo precipita come un boccalone quando Gandalf gli fa crollare il ponte sotto i piedi, ma viene poi sconfitto dal nostro nel corso di una battaglia sulla cima di un monte durante la quale non solo non vi son riferimenti al suo volare via per evitare gli attacchi, ma addirittura viene detto esplicitamente che lo stregone lo scaraventa giù (The Two Towers, book three, chapter V, The White Rider).

Lo stesso in tutti gli altri passi tolkieniani: i Balrog si comportano come si comporterebbe qualsiasi altra creatura incapace di volare. Ed è qui, come accennavo prima, che si scatena la fantasia cerchiobottista del pensiero "pro-wings": i balrog avevano le ali, ma a Moria c'era troppo poco spazio per distenderle e volare; i balrog avevano le ali, ma nel corso della battaglia (qualsiasi battaglia in cui sia coinvolto un Balrog e che si concluda col suo cascare giù) sono state rese inservibili; i balrog avevano le ali, ma non il brevetto di volo (ok, questa è mia); i balrog avevano le ali ma quelle del Flagello di Durin sono venute meno quando è divenuto un essere di tenebra e fango anziché oscurità e fuoco, dato che il fuoco è etereo e l'acqua no (ok, questa è una boiata improvvisata sul momento, ma son pronto a metter la mano sul fuoco che da qualche parte è già stata tirata fuori). E, infine, il meglio del meglio: i balrog avevano le ali ma erano puramente estetiche e non in grado di volare.

Pur di non ammettere di aver sbagliato a interpretare una metafora, i nostri pro-wings si spingono fino a fare di Tolkien uno scrittore incapace ai limiti del ridicolo: i balrog avevano le ali ma esse non li reggevano in volo. Un po' come se in un romanzo hard boiled comparisse un tipo tosto che vive ai margini della legge, identificato più volte come un biker ma costretto a spostarsi con i mezzi pubblici in quanto la sua motocicletta è una moto giocattolo incapace di reggere il suo peso.
Cose del genere affossano qualsiasi romanzo o narrazione, o meglio: sono perle in un lavoro che punti sull'essere trash o comico, martellate allo sterno per un'opera che voglia essere seria - e non riconoscere a Tolkien il rigore della serietà è gesto a metà fra la sconsideratezza e l'imbecillità.

Il punto, per fortuna o purtroppo, è che i lettori di Tolkien non sono Tolkien. Un po' scherzando e un po' no, a volte mi definisco "collega" di Tolkien; ed è in effetti vero: il mio percorso di studi universitario, per quanto focalizzato su aspetti diversi, per quanto ancora incompleto, per quanto non temprato da anni di fatica e dedizione, è lo stesso seguito a suo tempo dal Professore - ovvero un percorso di studi filologici. Tolkien era lettore e studioso dei testi antichi, oltre che di lingue e storia antiche, prima che scrittore; ma la sua opera ha travalicato le barriere settoriali riuscendo a far quello che negli ultimi tempi ha fatto l'opera di ben pochi filologi: diventare "di massa" e "fare costume". Di Tolkien si è creata una vulgata, di certo sostenuta da tanti prodotti derivati prima e D&Derivati poi (nel primo Dungeons & Dragons, il "balor" era il "balrog", i "treant" erano "ent" e gli "halfling", termine peraltro tolkieniano tradotto da noi come "mezz'uomo", erano "hobbit"; senza considerare la classe del ranger, il termine tolkieniano da noi tradotto come "ramingo", che da un certo livello in poi poteva usare le sfere di cristallo perché Aragorn poteva usare il Palantìr).


Si è creata una vulgata tolkieniana, vale a dire anche una volgarizzazione; del resto è cosa nota agli addetti ai lavori come, traducendo il testo biblico per quella che si considera la Vulgata per antonomasia, Gerolamo usò in tanti casi delle forme che sapeva essere niente affatto corrette ma nondimeno passate nell'uso ed entrate nella tradizione cristiana. Nella vulgata di Tolkien, dunque, i balrog hanno le ali: non c'è altro da dire, "its wings" è scritto nero su bianco. Tanto che in tutte le altre opere derivate (giochi, miniature, film, disegni) i balrog hanno le ali; e non mi sembra troppo azzardato il paragone fra Gerolamo che inghiottendo il fegato filologico traduce certi termini con espressioni in uso ma errate, e Peter Jackson che fa il balrog alato tranciando la questione in favore del parere più diffuso seppur traballante.

Parere traballante, perché basato esclusivamente sul non riconoscere una metafora come tale, e sull'interpretare letteralmente una similitudine. Ammetto che buona parte dei lettori di Tolkien non siano filologi e non siano neppure lettori né tanto meno studiosi di epica, ma Tolkien *era* un filologo e uno studioso di epica! E in quanto tale riconosceva e usava espressioni metaforiche. Interpretare letteralmente una metafora è il modo migliore per snaturare il testo.
Per dire, nello stesso capitolo in cui vi è la descrizione del Balrog (nel caso della mia edizione addirittura nella stessa pagina, la 322), il commiato di Gandalf alla Compagnia è affidato alla celebre frase:
"Fuggite, sciocchi!"
O, in lingua originale:
"Fly, you fools!"
I sostenitori dei Balrog alati dovrebbero dunque, a rigore, sostenere che anche umani, elfi, nani e hobbit fossero secondo Tolkien in grado di volare, o che Gandalf li stesse invitando a sbattere le braccia nel tentativo di spiccare il volo. Ma, obiettano i pro-wings, in questi casi è chiaro che si tratta di una metafora perché niente lascia supporre che la Compagnia abbia i mezzi per volare; per quanto, a voler esser pignoli, se si può essere alati e non volanti, si può essere anche non volanti e alati; per quanto, a voler essere precisi, il verbo "to fly" viene usato in riferimento alla Compagnia più volte di quante non si parli di "wings" in riferimento al Balrog". L'unico motivo logico che spinge in un caso per l'interpretazione letterale e in un altro per quella metaforica è, molto semplicemente, la volontà di compiere il minor sforzo mentale per comprendere il testo - vale a dire la volontà di appiattire un testo letterario.

Il punto è che Il Signore degli Anelli mirava a essere un romanzo di epica in prosa, e metafore e similitudini sono una costante dell'epica indoeuropea di cui Tolkien era studioso (spiccatamente di quella nordica). Di fronte a metafore e similitudini, molto spesso la reazione del lettore non preparato è quella di considerare tali orpelli un inutile appesantimento del testo anziché un tentativo di vincolare un significato o una comprensione più profonda (o anche solo una maggiore artisticità); in questi casi, molto spesso, la similitudine e la metafora vengono prese alla lettera dacché, interpretandole in questa maniera, il testo viene ricondotto a un livello maggiormente comprensibile.
Del resto, che dietro alla giustificazione delle ali dei balrog ci sia una sorta di pigrizia intellettuale di fondo lo dimostra anche uno dei passi citati in precedenza. Perché nient'altro, se non la pigrizia, potrebbe spiegare il modo in cui un estratto viene strappato dal suo contesto e un pronome allontanato dal nome a cui rimanda. Mi riferisco al secondo passo citato da pagina 322, che personalmente citerei piuttosto come:
"The Balrog made no answer. The fire in it seemed to die, but the darkness grew. It stepped forward slowly on to the bridge, and suddenly it drew itself up to a great height, and its wings were spread from wall to wall; but still Gandalf could be seen, glimmering in the gloom..."
Ovvero: "Il Balrog non diede risposta. Il fuoco in esso parve morire, ma l'oscurità crebbe. Ess* avanzò lentamente lungo il ponte, e d'improvviso si erse a grande altezza, e le sue ali si estendevano da parete a parete; eppure ancora Gandalf poteva essere visto, debole luce nel buio..."
Perché citando per intero troviamo che nelle frasi precedenti al passo incriminato, l'unico passo canonico su cui ci si basa per sostenere che i Balrog avessero le ali, esistono almeno due sostantivi a cui può fare riferimento il pronome neutro "it" a cui appartengono "its wings": il Balrog e, appunto, la sua oscurità, "the darkness". E, dei due, il secondo è più vicino al pronome incriminato.
Prendiamo un brano equivalente, questo ad esempio:
"Mario stava andando in bicicletta, quando il velocipede si ruppe. La ruota posteriore rimase attaccata al telaio, ma quella anteriore si staccò. Rotolò lungo tutta la discesa e andò a finire in mezzo al canalone..."
Penso che sia chiaro a tutti i lettori che a rotolare lungo la discesa non è Mario, ma la ruota anteriore staccatasi dal telaio; questo perché la ruota compare come soggetto subito prima della frase in cui manca il soggetto espresso (o, a voler pensare in Inglese che sempre necessita di un soggetto, esso viene espresso mediante un pronome). Citare solo l'ultima frase ("rotolò lungo la discesa...") dicendo che fa riferimento a Mario, dunque, è un vero e proprio falso, una manipolazione del testo volta a dimostrare qualcosa anche a discapito del testo stesso.

Lo stesso, miei cari pro-wings, può essere detto del testo tolkieniano: ad avanzare pesantemente, a levarsi e a estendersi non è il Balrog, ma l'oscurità attorno ad esso che non ne costituisce il corpo quanto piuttosto una sorta di "aura" - a meno che non vi immaginiate Gandalf petto contro petto col balrog, si intende.
Del resto, questa uso del metaforico senza ribadire che si tratti di una metafora non costituisce affatto una novità inventata da Tolkien - per quanto per tanti lettori di Tolkien *sia* una novità.
Mi limito a citare una serie di passi da un testo epico di due millenni or sono, l'Eneide di Virgilio; passi relativi al celeberrimo cavallo di Troia, talmente grande da sembrare un monte (anche qui, ovviamente, c'è una chiara espressione iperbolica; ma l'iperbole è tipica dell'epica quanto e forse più della metafora).
Cito dal libro II**:
v 15: "...instar montis ecum diuina Palladis arte..." ("...grande come un monte un cavallo con la divina arte di Pallade...")
v 19: "...includunt caeco lateri penitusque cauernas..." ("...racchiudono nel fianco cieco e fino in fondo le caverne...")

Il cavallo, ovviamente, è e resta un cavallo a forma di cavallo; ok, magari stilizzata, ma di certo è una stilizzazione d'un cavallo e non d'una montagna per quanto Virgilio ce lo descriva alto come una montagna (ok, al più sarà stato alto come una collina). Eppure, al verso 19 per parlare delle cavità al suo interno si parla di "cauernas", "caverne" appunto; i cavalli non hanno caverne, sono le montagne quelle i cui spazi vuoti interni prendono tale nome; ma se il cavallo viene assimilato a una caverna, poi si possono usare in riferimento a esso anche termini che solitamente si impiegano solo per le caverne e mai per i cavalli - questo perché nella mente del lettore di Virgilio esiste già un legame fra i due.
(S)fortunatamente, Tolkien gode attualmente di un pubblico molto maggiore rispetto a Virgilio, e quel che è scontato per il lettore virgiliano non lo è altrettanto per il lettore tolkieniano: questi, dopo aver letto una metafora o un paragone ("shadow... like two vast wings", "oscurità... come due ampie ali") tende ad appiattire tutto su un solo piano (quando la metafora ci gioca sull'avere più livelli!) e a dimenticarsi delle implicazioni di quanto appena letto.
Non parlo ovviamente di *tutti* i lettori tolkieniani, ma penso che quanto appena detto si possa applicare alla maggior parte di essi - proprio perché Tolkien è entrato a buon diritto nel costume, mentre invece Virgilio è ormai un autore classico in lingua morta, e i classici in lingua morta ormai non li legge quasi più nessuno.

E dunque la maggior parte dei lettori di Tolkien, facendo il minor sforzo mentale, si immaginano il balrog come dotato di inutili ali non adatte al volo, quasi che fosse uno struzzo e una gallina. Ma, se ci pensiamo un attimo, la maggior parte dei lettori di Tolkien si immaginano il balrog dotato di corna e coda, e magari anche di zoccoli fessi, mentre Tolkien ce lo descrive  molto diverso (pagina 321):
"... like a great shadow, in the middle of which was a dark form, of man-shape maybe, yet greater..."
"... come una grande tenebra, nel mezzo della quale vi era una forma oscura, di sembiante umano forse, ma più grande..."
Non dunque un essere fatto di fiamme e tenebre, ma una figura umanoide più grande di un uomo (il che è logico: in Tolkien altezza = potere, tanto che le altezze sembrano variare al crescer del potere manifestato***), ma comunque abbastanza piccola da passare su un ponte pensato per dei nani in fila indiana, ammantata di tenebre e fiamme. Eppure, ancor prima della trilogia cinematografica che molto ha contribuito ad appiattire l'immaginario collettivo, la vulgata voleva i balrog come delle figure cornute, alate, possibilmente dotate di coda e zoccoli e, soprattutto, composte e non avvolte da oscurità e fuoco.
Qualcosa di simile, in effetti.


I Balrog di Tolkien, dopotutto, sono Maiar corrotti dal male, vale a dire "angeli caduti", vale a dire "diavoli"; e la maggior parte dei lettori tolkieniani, cresciuti in un contesto culturale cristiano, tende ovviamente a figurarsi i Balrog con la stessa iconografia tradizionalmente attribuita al diavolo: ali, corna, coda, zoccoli, corpo nero come il carbone o rosso come il fuoco.
Del resto, il balor di Dungeons & Dragons al quale ho accennato prima come spudorata scopiazzatura fruttifera di D&Derivati, è un mostro che appartiene nel gioco alla categoria dei demoni (ok, in D&D fra demoni e diavoli esiste una forte differenza, ma ci siam capiti), ed è tanto legato ai Balrog di Tolkien quanto all'immagine iconografica del diavolo quale ci è stata tramandata dalla tradizione cristiana. 

In sostanza, dunque, se in tanti si immaginano i balrog come creature alate e cornute, mentre solo con faciloneria si può sostenere che Tolkien si figurasse i suoi Balrog in questa maniera, questo accade perché se li figurano in tutto e per tutto come i diavoli della tradizione cristiana a cui sono in tutto e per tutto affini.
Il Balrog "conta come" un diavolo (e probabilmente questo era vero per lo stesso Tolkien, autore cristiano), dunque deve sembrare in tutto e per tutto un diavolo della più classica iconografia con tanto di corna, ali e possibilmente zoccoli e coda.

Come filologo, considererei questa teoria buona per essere buttata in un cestino o calciorotata giù da una torre, destinata a sfracellarsi come un Balrog senza ali. Ma poi ci rifletto su e mi dico una cosa: i Balrog di Tolkien non volavano e non avevano ali né corna; ma ormai, nella cultura popolare, questi tratti li identificano subito. E probabilmente non è troppo sbagliato pensare che esista da un lato il Balrog - maiuscolo - di Tolkien, figura umanoide possente (ma suppongo sotto i due metri e mezzo di altezza) ammantata di tenebre che può rivestirsi di fiamme o di fango, dall'altra il  gigantesco balrog - minuscolo - fatto di oscurità e fuoco e dotato di ali e corna.
Un conto è il testo originale, un conto diverso è la vulgata che se ne trae.

Perciò, per quanto la miniatura del balrog prodotta dalla GW non sia per me "un Balrog", posso dire con certezza che è una fantastica miniatura. Non è corretta dal punto di vista testuale, probabilmente se un Tolkien redivivo se la trovasse davanti agli occhi avrebbe difficoltà a riconoscerla come qualcosa di suo, ma è di certo in linea col modo in cui i più si immaginano i balrog.
Noi filologi, dopotutto, siamo una strana razza...

* faccio riferimento alla mia edizione in lingua originale di The Lord of the Rings, edita nel 2001 da Harper Collins Publishers nella collana Collins Modern Classics, ISBN 0-00-712970-X.

** edizione BUR del 2002, ISBN 88-17-11742-0.

*** e gli Istari come Gandalf, Maiar ammantati di forma umana, appaiono come umani *ricurvi*: celare il proprio potere pur essendo in grado di utilizzarlo va di pari passo con l'essere alti ma piegati.

venerdì 18 aprile 2014

Vite nel vento

Le nostre vite sono come gli intrecci delle foglie che danzano nel vento.
Proprio come le foglie, le vite si sfiorano e si uniscono e si congiungono e si allontanano senza sosta, talvolta seguitando con apprensione la fuga d'altri, talaltra accettando lo scorrere e l'inesorabile crescita d'una distanza un tempo colmabile dallo sfiorarsi delle dita, lo spalancarsi d'un abisso un tempo imponderabile.

Persone che sono state parte integrante della nostra vita se ne allontanano come le più remote delle comparse. A volte si allontanano, a volte ci allontanano, e altre volte ancora siamo noi che le allontaniamo. Perché anche noi, nella vita degli altri, siamo comprimari che possono diventare comparse, esili foglie che aspirano all'essere coprotagonisti in un copione mutevole e impietoso.
Il vento e la vita ci trascinano, ci avvicinano, ci fanno sfiorare e poi ci spingono lontano, in un arazzo etereo e mutevole che nessun ritrattista potrebbe mai fissare su tela, poiché è nel divenire mutevole e incostante che si trova la sua più intima essenza.

E quando il soffio ci ha spinto lontano dalle foglie con cui condividevamo la danza, quando altre ne abbiamo allontanato noi stessi, inconsapevoli o per disegno cosciente, quando ancora siamo lontani da quelle che diverranno le nostre compagne di volo e ci troviamo, soli, nell'occhio del vento, viene da chiedersi se quell'ululato sofferto provenga dallo stesso vortice che ci trascina o non risalga piuttosto dalle nostre gole di animali feriti.

giovedì 17 aprile 2014

Demoni del Caos: assebalrog pronto alla pittura.

Infine, ci siamo: il lavoro di scultura è finito e il simpatico pezzo attende solo d'essere dipinto per poter rovesciare la sua ira sugli sventurati avversari.

Tutto sommato, sono soddisfatto del viso anche così com'è: non è quello classico di un assetato, ma richiama un teschio - perfetto per Khorne!




Una cosa che noterete subito è che le fiamme sono state completamente riscolpite: alla fine ho preferito qualche fiammella che coprisse la giunzione fra testa e fiamme esistenti che non l'immane chioma infuocata venutasi a creare per stratificazione.



Altra cosa completata è stato l'insieme di cinghie che collegano spallacci e pettorale; qualcosa di minimale, alla fine, come minimale è l'armatura (troppe cinghie, su un demone, richiamano Slaanesh piuttosto che Khorne).

Nota curiosa: il numero associato a Khorne è l'8, e questo demone ha 8 cinghie per reggere l'armatura.



E, per chiudere in bellezza, un qualcosa che ho deciso di inserire solo all'ultimo minuto: un simbolo di Khorne a rilievo sull'ala destra.

Qualche lacerazione tanto per rendere più "vissuto" il simbolo.

lunedì 14 aprile 2014

E nell'oscuro sotterraneo non giunse mai la luce

Qual è l'effetto conseguito dedicandosi alla creazione di qualcosa senza fine né funzione? Cosa producono le risorse, il tempo e le energie investiti in tale direzione, nel caso in cui non sia fruttifero di per se stesso il loro semplice dispendio?
Per entrambe le domande esiste una sola risposta: nulla. Non serve a niente dedicarsi a una attività "improduttiva" che non generi in noi un qualche piacere o che non abbia qualche effetto positivo per il semplice fatto di esserci dedicati a essa (esempio: a pochi servirà mettere sul curriculum "faccio 100 ripetute di squat al giorno", ma tutti quelli che lo fanno ne trarranno profitto in termine di forma fisica*).
La conseguenza logica di questo ragionamento è una sola: a che pro dedicarmi allo sviluppo di qualcosa che io so già non userò, un gioco che ricade in una nicchia già ampiamente occupata da altri prodotti per il cui sviluppo sono state profuse energie maggiori di quelle che io sono in grado di dedicarvi, un gioco che per ora ha destato ben poco interesse?
Sì, la rete è piena di giochini e giochetti di ruolo amatoriali, perché ogni giocatore sente il bisogno di diventare autore e di diffondere in un modo o nell'altro il suo prodotto; i più sono boiate pazzesche, alcuni sono semplicemente giochi che vanno incontro ai gusti di chi li ha creati ma che a pochi altri andranno totalmente a genio. Ma in definitiva il creare un gioco che non si ha intenzione di giocare e che non dice troppo di nuovo è un'operazione che appaga esclusivamente il proprio narcisismo. Un'operazione che, in verità, ho compiuto spesse volte in passato: guardate sotto l'etichetta giochi "della casa", ci sono diversi dubbi e discutibili regolamenti a opera del sottoscritto - e non sono neppure gli unici che ho creato. Direi che sono cresciuto oltre questa fase di puro appagamento personale, specialmente perché nel momento in cui consideri che l'unico scopo d'un qualcosa è appagare il tuo narcisismo quella stessa attività diventa sgradevole per il tuo amor proprio, poiché ti sbatte in faccia tutta la pochezza intrinseca nel tuo dedicarsi a essa.

Per questo, signore e signori, il progetto di sviluppo di Nell'Oscuro Sotterraneo, NOS per gli acronimofili e i latinisti a fuffo, viene ufficialmente interrotto.
Perché stavo sviluppando un gioco che io stesso non avrei giocato, essendo ormai fermo da mesi col GdR e con poche possibilità di riprendere nel breve periodo.
Perché stavo sviluppando un gioco di cui avrebbero benissimo fatto le veci alcune regole opzionali per qualsiasi gioco old school o quasi.
Perché il progetto, a riprova del suo esser superfluo, è stato praticamente ignorato dalla community OSR italiana e ha ricevuto solo timidi apprezzamenti da parte di persone di certo benintenzionate, ma che non sono certo appassionati di old school e il cui gradimento è piuttosto educato gradimento nei confronti di qualsiasi "novità ludica" a prescindere dall'utilità o auspicabilità della stessa.
Perché, in sostanza, l'unico scopo del lavorare a Nell'Oscuro Sotterraneo finiva per essere quello di poter dire: "C'è un nuovo gioco col mio nome in circolazione." Che poi questa circolazione fosse nulla, che questo gioco non essendo playtestato decentemente finisse per essere viziato da bug imponderabili, che un'esperienza di gioco simile si potesse ottenere in mille altri modi meno dispendiosi in termini di tempo ed energie e molto più premianti in termini di diffusione, tutto ciò sembrava passare in secondo piano. Solo che ho cambiato punto di vista, e ora il primo piano di tutti questi fattori getta un'ombra indiscreta sullo sforzo precedente.

Perciò NOS si conclude qui e ora, come una struttura regolistica in parte giocabile e in parte no diffusa sui post del blog degli ultimi mesi. Se qualcuno vorrà prenderlo in mano sarà il benvenuto, ma per quanto mi riguarda è un capitolo concluso, un capitolo che ho sbagliato a voler sviluppare come tale senza accontentarmi di farne piuttosto un capoverso.

* beati loro che ci riescono, beninteso...

domenica 13 aprile 2014

Demoni del Caos: spallacci e capelli fiammeggianti dell'assetato di sangue

Il lungo, certosino e parecchio palloso lavoro sugli spallacci del balrog-assetato, tale perché toccava ogni volta aspettare che il micropezzetto precedente fosse solidificato per passare al successivo, è finalmente terminato.

Inoltre, ho iniziato a scolpire delle fiamme un po' più simili a quelle precedenti, e il risultato è abbastanza soddisfacente.

"Per Khorne, vi asfalterò l'anima a suon di botte!" 

Fra l'altro, esiste una vecchia (di qualche anno) massima (per modo di dire) fra i modellisti (neanche tutti, per non dire molto pochi) secondo la quale il milliput può essere limato, la materia verde no. Balle, tutte balle: basta avere la delicatezza di un taurofacocero e la limatura della materia verde diventa possibile - come si evince dalle foto.

Qui si vedono un poco i fiammacapelli nuovi, e si vede quanto è enorme il pezzo rispetto alla basetta.

Per chi si ponesse dubbi, ecco il nostro mostro a confronto con un araldo di Slaanesh: è infinitamente più grosso, massiccio e incazzoso.

Comunque, i lavori son ben lungi dall'essere terminati: a parte le cinghie dei pezzi d'armatura, che ovviamente possono essere scolpite solo dopo aver posizionato i suddetti, c'è tutta la fiammeggiante capigliatura da risistemare.

Poco a poco, ci sto arrivando.

Per ora ho lavorato solo con i pezzi di stucco che avanzavano da altro cose; ovviamente, dedicandomi a quello, i lavori saranno più lesti.

E torniamo a bomba su altri dubbi. Primo fra tutti il posizionamento degli spallacci: la mia idea originaria, infatti, era quella di usarli per coprire sia la spalla vera e propria, sia la giunzione dell'ala - proprio per questo motivo mi ero orientato su questi cosi così grandi. Ma poi sono nati tutta una serie di dubbi estetici sull'opportunità di montarli, piuttosto, in posizione più avanzata; questo sarebbe anche più realistico dal punto di vista del volo, fra l'altro, in quanto gli spallacci così non disturberebbero il movimento delle ali. Ma non sono convinto. Per cui, fido patafix alla mano, ho fatto una serie di foto.

Spallacci in posizione avanzata; montandoli così, ovviamente, dovrei stuccare ulteriormente alcuni punti e ci sarebbe il problema di dover far passare la cinghia attorno all'ala.



Questa posizione migliorerebbe la visione frontale del pezzo.

Spallacci arretrati nella posizione originaria; non c'è una perfetta adesione spalla-spallaccio, e l'ala sembra in qualche modo bloccata, ma dall'alto rende meglio.

Ovviamente, la posizione degli spallacci influenzerà anche l'estensione complessiva dei capelli-fiamma.

Un altro problema che è saltato fuori nell'ultima fase riguarda il gonnellino. Dopo una serie di suggerimenti in proposito mi ero già deciso a ricorrere a un simpatico e poco comodo gonnellino di catene, e l'avevo anche realizzato, ma ho incontrato diverse difficoltà sia tecniche sia estetiche.
In primo luogo, il nostro demone ha uno spazio molto ridotto fra le gambe: il suo bacino va restringendosi fino ad essere quasi un prolungamento della coda, e non solo non c'è quasi spazio per incollare qualcosa, ma qualsiasi cosa ci si metta rovinerebbe la flessuosità dinamica della parte bassa.
Né, data la posizione delle gambe, sarebbe possibile inserire una cinghia per reggere il gonnellino senza farla essere non dico ascellare, ma quasi; e il pezzo è ispirato a Kenshiro, mica a Fantozzi.
Infine, a livello estetico un gonnellino sottile finisce irrimediabilmente per ricollegarsi più all'ambiguo immaginario di Slaanesh che non all'iconografia di Khorne.

Il minutissimo bacino del pezzo. Che, forse, non si presenta male neppure così.

Il gonnellino a cui avevo pensato, composto da catenelle e da un teschio. Troppo inadeguato.

Dunque, in sostanza, è così un male se il nostro demone sarà senza biancheria intima?
Secondo me, in definitiva, no.

PS: come avrete notato ho deciso di non mettere fiamme sulla basetta alla fine.

mercoledì 9 aprile 2014

Eri...

In definitiva, a parer mio la vera discriminante fra prosa e poesia sta nell'impiego dei versi: anche se decadi di letteratura di consumo - certamente fruibile ma spesso elaborata quanto una mela al naturale - ci hanno abituato a pensarla diversamente, la cura formale e l'impiego di figure retoriche non sono certo proprietà esclusive della poesia, così come in tanti casi è "poesia" quella che non esibisce affatto un lessico forbito. La corrispondenza fra forma e contenuto, più o meno l'ABC della letteratura, rende possibile tutto questo.
Ovviamente, ciò non vuol dire che basti andare a capo a sentimento (per non dire di peggio) per far poesia; ci deve essere un effetto, ci deve essere un qualcosa che giustifichi quella scelta formale dell'andare a capo. E quando si riesce a far tutto ciò, a "mettere tutto quel che serve senza metterci nulla di inutile" restando all'interno del metro, si può produrre qualcosa di veramente alto.
Più spesso, ovviamente, si va a capo "seguendo il cuore" (o magari il quore con la q), o si inserisce qualche parolina per far tornare il verso col metro - del resto lo faceva anche Omero o chi per lui, siam forse noi più capaci di Omero o chi per lui? No, ecco.

Talvolta, come in questo caso, si prova a far qualche "esercizio di stile" per migliorarsi.


Eri nel vento
Quando scompigliava le nubi in volo,
Quando col soffio agitava i capelli.
Eri nel sole
Quando splendeva, e abbassavo lo sguardo,
Quando celava il tuo volto, velato.
Eri nel cielo
Lontano e presente, amabile agli occhi,
Sfuggevole al tocco, a baci e carezze.
Eri la luna,
Cantata nei versi, la luna incostante
Che mostra il sorriso celandoti il volto.
Eri nel sogno.


Alternandoli ai quinari, ho voluto giocare un po' con gli endecasillabi fino a trasfigurarli quasi senza colpo ferire in dodecasillabi.
E vado molto fiero del passaggio "la luna incostante che mostra il sorriso celandoti il volto", sappiatelo.

martedì 8 aprile 2014

Demoni del Caos: progressi semidefinitivi del balrog-assetato

Direi che, quantomeno a livello di modifiche, ci sono quasi.


Enorme e cattivissimo, anche ora che è incompleto.

Ovviamente, molte cose vanno ancora scolpite, e altre incollate dato che questa è una foto d'assemblaggio col patafix in certi luoghi.

Quali lavori mancano? Ecco qui: vanno finiti gli spallacci, vanno finite le fiamme, vanno inserite le cinghie per reggere pettorale e spallacci - più una cosa di cui parlerò poi.

Quel che invece è finito è il braccio sinistro, realizzato molto in modalità "kenshirosa".

Bende attorno all'arto, e guanto da picchiatore a mezze dita con le nocche rinforzate (da rifinire). Il che è una "citazione invertita" da Hokuto No Ken, poiché quando il suo alleato Ain muore Kenshiro ne indossa il guanto borchiato. Sì, il guanto in questione è destro e non sinistro, ma questo è dopotutto un Kenshiro demoniaco, no? Ci sta che sia più "sinistro".

La frusta con le punte in metallo al termine delle tre code. Fa la sua figura, e così resa è meno da balrog e più da demone di Khorne. 

Particolare sulle nocche; ho scolpito il guanto sulla sinistra perché mi serviva qualcosa che coprisse la lavorazione dovuta all'aver allungato l'arto per incastrarci dentro la fruta.

Niente più di una fasciatura fa "effetto enorme" sui muscoli dell'avambraccio, niente.

Come dicevo, grossi sono invece i lavori che aspettano spallacci e fiamme. Le seconde, anzi, potrebbero essere riscolpite ex novo togliendo via tutto quel che ho fatto io per creare fiammoni più grossi sul modello di quelli della schiena. Va valutato.

Per gli spallacci, fortunatamente, il lavoro è più soddisfacente ma molto più noioso: sto creando il bordo e le frecce, che si vedono per ora solo sullo spallaccio destro, a partire da tubicini di materia verde; procedo quindi a tagliuzzarli e incollarli a dovere rigorosamente da secchi, e solo dopo con altro stucco li armonizzo col bordo. Una cosa un po' noiosa. Un po' molto noiosa.

Spallacci decisamente più caotici ora, eh?

Troppo stacco, fra le fiamme scolpite e quelle originali c'è troppo stacco.

Le frecce sullo spallaccio. Ovviamente dovrò lavorare ulteriormente per armonizzare fra loro i diversi segmenti di stucco. 

Ma dove ho già - quasi, devo sistemare alcune cose - finito, il bordo si presenta così, senza nessuno stacco dove ho appiccicato il tubicino.

Sussistono infine alcuni dubbi sul gonnellino: scartata l'idea iniziale (il pezzo prescelto non entrava fra le gambe a meno di pose innaturali), ora sono indeciso: gonnellino in catene o pteryghes in stile "virile demonaccio"?


Nel caso, userei questo teschio demoniaco come base del gonnellino, e ci monterei poi sotto queste simpatiche otto frange ricavate dai pezzi che han fornito i teschi per il guanto.

Tutto sommato, i lavori non van per niente male: gli spallacci saran pallosetti, ma non troppo impegnativi. E iniziano a nascere i primi dubbi di pittura riguardo alle fiamme: realistiche o "innaturali fiamme scarlatte"?
Ci penserò sopra...


giovedì 3 aprile 2014

Spendere se stessi nella trappola dei costi irrecuperabili

Da quant'era che non pubblicavo sul blog un pezzo di prosa che non fosse collegato a un qualche gioco di ruolo?
Da più di tre anni, a quanto pare. Un intervallo più che ingiustificabile, temo. Perciò spero che, alla luce di tale colpa, appaiano cosa da poco tutte le pecche di questa non troppo breve riflessione mezzo metaforica su un problema forse troppo comune.


Conosco questo effetto, conosco questa situazione – ci sono passato tante volte, in effetti. Come tutti.
La sapiente scienza economica, l'arte del consumare capitali per non bruciare il profitto, ha trovato un nome per la situazione che vivo e che noi tutti viviamo o abbiamo vissuto, più o meno inconsapevoli, tante volte. È la trappola dei costi irrecuperabili, il baratro in cui precipiti quando pur avendo puntato su un investimento fallimentare continui a buttarvi denaro non potendo accettare di aver sperperato il capitale iniziale. Trappola dei costi irrecuperabili appunto, ché per quanto tu ci investa mai ti sarà possibile trasformare in business remunerativo un tale fallimento; continuerai anzi a dissipare le tue risorse, sprecandole per trasformare un buco nero nel tuo personale e irrealizzabile Eldorado. Più tardi accetterai la situazione in cui ti trovi, maggiori saranno le perdite sofferte prima di uscire dalla trappola dove troppo a lungo hai indugiato credendola un fertile bacio d'amante.
Un fertile bacio d'amante, già.
Ovviamente, l'essere consapevoli di questo rischio non deve essere, né di certo è per gli economisti, un verghiano invito a non tentare l'intentato crogiolandosi nell'ineluttabilità dell'immobilismo; è semmai un monito a saper distinguere l'investimento su cui bisogna insistere da quello che allo stato attuale delle cose è un puro e semplice spreco. E qui si nasconde l'illusione, la trappola dentro la trappola: perché è facile, dannatamente facile convincersi che i tempi stiano maturando, che le cose stiano cambiando e che presto la tendenza si invertirà, che basterà tener duro per ancora qualche tempo in modo da poter finalmente arrivare a cogliere quei frutti dolci e succosi che a lungo sono stati sognati, quei frutti sodi ora acerbi che secondo disfattisti e malelingue non matureranno mai.
Ma quanto, quanto a lungo l'illusione può confondere e ingannare la logica? Verrà prima o poi il momento in cui anche il più inarrendevole dei sognatori dovrà accettare l'irrealtà della propria chimera – o no? O non la finirà piuttosto come la più comica delle macchiette, quel vecchio tutto pelle e ossa con la barba incolta e il cappello a tese decisamente troppo larghe, quel vecchio minatore che in ogni western si ostina ancora a scavare nella propria concessione certo di avvicinarsi ogni giorno di più alla proverbiale vena d'oro?
C'è qualcosa che affascina nella figura del vecchio scavaterra: la sua tenacia, la sua fiducia nei frutti salvifici della fatica ostinata sono indubbiamente esempi da seguire, nessuno vorrebbe gettare la spugna e la piccozza a trenta centimetri dalla vena d'oro. Ma se non vi fosse invece alcun tesoro da portare alla luce? L'ostinazione del minatore diventerebbe allora risibile, ogni virtù positiva trasfigurata nel suo essere latrice di fatica inutile e speranze mal riposte. Il vero dramma del nostro vecchio è che lui non può mai sapere come andrà a finire, se vi sia davvero dell'oro nel suo terreno o se egli stia invece dando la caccia ai luccicanti riflessi di un sogno irrealizzabile.
Lui, come tutte le macchiette stereotipate, non cambierà mai: continuerà a cavar roccia dalla terra, poiché quello è il suo unico ruolo nell'economia del racconto. Ma noi? Quanto ci mettiamo noi ad accorgerci che l'oro non si trova lì, che mai quei frutti matureranno e mai potremo coglierli per suggerne il dolce nettare, quanto ci metterò io ad accorgermene?
A livello razionale, in realtà, lo so già da tempo; da tempo avrei dovuto cogliere una pietra tombale dalla mia cava delle disillusioni per mettervela sopra. E l'ho fatto in effetti, l'ho fatto diverse volte. Ma non è mai morto ciò che soggiace in eterno nei nostri sogni, e in particolari momenti si può scordare anche ciò che diamo per assordato.
Perché la speranza, in profondità, cova sempre; perché dopotutto quello a cui aspiravamo ieri continua a essere una delle nostre aspirazioni dell'oggi. Perché ci diciamo che magari la nostra vena d'oro è proprio lì, stavolta le piogge e il tempo hanno eroso il terreno e magari basterà una picconata, massimo due, per farla venire alla luce; e anche se oggi non trovassimo niente, ogni colpo in più sarà pur sempre un colpo in meno da dare per raggiungere finalmente quel tesoro tanto agognato dal nostro cuore. Abbiamo faticato così tanto, certo il da fare è ormai poca cosa rispetto a quanto l'ha preceduto; abbiamo investito così tanto, certo i costi che dobbiamo affrontare ora sono nulla rispetto al già speso, quei costi irrecuperabili che verrebbero irrimediabilmente persi se ci arrendessimo proprio ora.
E ci sforziamo di ignorare quel tarlo che rode il sogno, quel pensiero disilluso che ci spinge brutalmente ad accettare una realtà sgradevole: se tanto abbiamo già fatto, se tanto abbiamo già faticato senza ottenere nulla è probabile che non ci sia proprio niente da ottenere. I nostri sforzi fino ad ora sono stati vani, poiché cercavamo l'oro dove non c'è che fango, perché aspettavamo che maturassero i frutti d'una pianta sterile e rinsecchita. Non troveremo nulla, non ci sarà nessun coronamento dei nostri sforzi: il tempo e le energie impiegati sono stati sprecati, la nostra tenacia risibile ostinazione d'un pazzo visionario.
È stato tutto inutile, non potrò mai rivivere gli attimi dei giorni che ho trascorso a cercare il nulla, non potrò mai decidere di annullare quel che ho compiuto.
Ma possiamo decidere di uscire dalla trappola, possiamo decidere di accettare d'aver perso quel che è andato sprecato, possiamo decidere di porre un sigillo definitivo a quel capitolo della nostra esistenza – e andare oltre. Non è una resa, non si tratta di gettare la spugna: si tratta di comprendere con umiltà che non sarà la nostra ostinatezza da sola a rendere possibile l'impossibile, si tratta di rinunciare alle illusioni per abbracciare nuovi sogni.

Per abbracciare quei sogni che, un giorno, potranno restituire il nostro abbraccio.

Demoni del Caos: lavori sull'assetato, dubbi sull'araldo

Fra una cosa e l'altra, procedono i lavori modellistici sul balrog-assetato e sull'araldo-Wolverine.

E cominciamo da quest'ultimo, per il quale sto avendo tutta una serie di dubbi. Anzi, iniziamo dalla sua cavalcatura.


Al momento, la cavalcatura si presenta così; ha qualche decorazione sulla spalla anteriore sinistra che andrà a creare un piacevole chiasmo con l'ascia dell'araldo, ma tutto sommato è ancora molto anonima: potrebbe essere la cavalcatura di un qualsiasi sanguinario massacratore, non ha quel qualcosa che la renda il fiero destriero di un araldo di Khorne.

Perciò stavo pensando di ornarla con un po' di nastri e teschi, raccolti dalla bitsbox in cui confluirono per vie traverse anche alcuni pezzi di re dei sepolcri.

In effetti, se colorassi in tinte metalliche il juggernaut, le frange di questi teschi potrebbero essere colorati come cuoio rosso aggiungendo molta personalità al modello. Che ne dite? Teschi con frange sì o teschi con frange no?

Nel frattempo, comunque, anche il nostro araldo ingrossa la sua muscolatura...

... peccato che, a seguito di un incidente di percorso che ha fatto partire un artiglio, stia seriamente pensando di rimuovere proprio l'artiglio dalla mano sinistra (poco pratico, anche in fase di montaggio; sarà tolto al 99%) e di sostituire gli artigli attuali con questi altri, molto più lunghi e affusolati e molto più da Wolverine.

Gli artigli alternativi; mi sa proprio che li limerò e sostituirò. Voi che ne dite?

Il terzo dubbio sull'araldo riguarda l'ascia. Mi era stato fatto notare che, in effetti, quella attuale era molto anonima. Avevo dunque pensato di decorarla con due strisce "alla Wolverine" per lato, ma l'esito sulla prima metà non era per niente soddisfacente. Perciò mi son detto: e se sostituissi l'ascia attuale con quest'altra?

Le due teste d'ascia; notare come anche il braccio destro stia venendo poco a poco reso più muscoloso. 

L'ascia alternativa avrebbe il vantaggio di essere anche più piccolina; in questo modo, lo sguardo cadrebbe subito sulla testa del modello aiutando immediatamente a riconoscere l'araldo-Wolverine per quello che è.

Quindi, in sostanza, i tre dubbi sull'araldo sono:
1) frange e teschi sulla cavalcatura, sì o no?
2) artigli lunghi o artigli corti?
3) ascia grande e rozza o ascia piccola con teschio?

Passiamo ora al demone maggiore di Khorne.


Come potete vedere, sto lavorando di nuovo sugli spallacci e sto poco a poco costruendo i bordi (ora dovrò inspessire le punte, per poi incollarci i tubicini che ho sagomato per i bordi; un lavoro noioso, in effetti).

E ho deciso: pettorale e cicatrici: Hokuto no Khorne.

Il braccio sinistro verrà poi decorato con fasce attorno all'avambraccio, per recuperare il tema Kenshiro senza essere troppo invasivi.

Fra l'altro, le fasce attorno al braccio riprenderanno quelle che stanno fissando i cosciali e che fisseranno poi il pettorale e gli spallacci.

Attorno al braccio destro, invece, penso proprio che metterò una catena.

Fra l'altro, anche le armi hanno delle fasce attorno ai manici.

E, parlando di mani, il braccio con la frusta è a buon punto.

Le dita ora si avvolgono attorno all'arma. Lavoro certosino di trapanino a mano e corde di chitarra per fornire un'anima non rigida alla giunzione.

I buchi sono stati stuccati, ma ci lavorerò sopra con maggior cura - forse creando anche un guanto che copra alcune imperfezioni, o magari alcune decorazioni metalliche.

E, per renderle più khornesche, le code della frusta sono state munite di punte metalliche.