martedì 28 dicembre 2010

Frammento numero tre

Ed ecco, come preludio ad alcune poesie che posterò nei prossimi giorni, il terzo dei miei frammenti.

Scritto a novembre 2008, potrebbe essere definito una "riflessione urbanistica", una serie di pensieri su quel che sono e su cosa possono rappresentare certi vicoli quasi fuori dal mondo che si incontrano inaspettatamente, quasi fossero in agguato, in tutte le città.


Basta voltare un angolo, e ti ritrovi là, in vicoli ignari della magnificenza presso la quale scorrono.

Strade antiche, dimenticate, dove dal macadam sporge ancora l'antica grazia di un sampietrino, abbracciato alla bruttura incatramata dell'oggi.
Le case sono alte, nella loro vecchiezza, più alte di molti monumenti alla modernità che vediamo celebrati ogni giorno come templi di divinità assenti. E sorgono vicine, intimamente affiancate dalla mente di una schiera d'artigiani che ignoravano l'austera spaziosità, quasi asettica, dei nostri giorni.

Il rombo delle auto sparisce, e i grandi palazzi di cristallo e ferro al carbone, zolfo del nuovo inferno, sono nascosti dalle piccole ma ostinate casupole dove la povera gente viveva, e vive ancora. Sembra di essere altrove, in un altro tempo, in un mondo che ormai sopravvive solo qui, nei cuori affranti e solitari delle piccole città.

Le grandi città hanno eliminato queste loro arterie, le hanno sacrificate sull'altare del moderno per ingraziarsi un qualche dio capriccioso, o ne hanno predisposto l'assassinio con sapienti veleni, quasi a liberarsi di un parente scomodo con cui dividere chissà quale eredità.
Alcune città hanno reciso queste loro vene per far spazio a nuovi, complessi miracoli della scienza, si sono private della vita vera, naturale, per dipendere d'ora in poi da una macchina impersonale, che ha reso esse stesse impersonali e false nella loro maestosa artificiosità. Altre città hanno compiuto il sacrificio in nome di una riconciliazione che passa per l'annientamento del diverso, un deserto chiamato “pace” dal popolo con la baionetta puntata contro la schiena. E in altre città le piccole stradine sono state sostituite da grandi viali, inconsci della storia che hanno distrutto, favoriti dai potenti perché meno inclini a ribellarsi e ad essere complici di barricata per coloro che ormai non vi abitano più.

Ma in questi vicoli la modernità arriva trafelata, di soppiatto, quasi vergognandosi di essere se stessa: un'antenna televisiva, nuovo cantore di arte vacua e vanagloriosa, si fa timidamente strada fra i mattoni e i muri che hanno preceduto la sua nascita di secoli e secoli; un campanello, odierno monumento all'immediatezza mediata, sembra quasi stonare di fianco alle porte dove il battacchio fa ancora bella mostra di sé.

Queste stradine non sono fatte per le automobili: sono state concepite in tempi in cui anche il carro era un lusso, uno che probabilmente nessuno dei residenti poteva permettersi; non conoscono il marciapiede, perché allora tutto il mondo era il marciapiede di un uomo non costretto a tutelare se stesso dalle proprie creature di alluminio e petrolio, quasi fosse una specie in via d'estinzione.
Pure, le automobili si fanno strada sul macadam, sostando un po' impacciate nelle vie troppo strette. Un'altra auto non potrebbe passarci, ma non è un problema: nessun veicolo passa in questi vicoli, e se anche ci passasse lo farebbe per fermarsi qui, di fianco alle altre auto, in un divieto di sosta eroicomico nel suo sfidare un'autorità totalmente disinteressata al luogo in cui il necessario misfatto è perpetrato.

È un attimo: svolti l'angolo, e dal vicolo arrivi al tronfio viale, altare dei suoi tempi stantii, che una saggia autorità ha voluto costruire di fianco al cuore pulsante della città. Una grossa, autocelebrativa arteria che incanala il flusso sanguinario delle automobili e dei turisti estasiati lungo la via degli organi amministrativi in putrefazione; ma il cuore della città è un altro.
Il cuore della città è un groviglio di brevi canali stradali, meno belli e meno appariscenti delle vie celebrative del potere, ma molto più veri: in esse il passato è una asettica e fragile ricostruzione, in vendita al primo arrivista; nei vicoli del centro, il passato vive ancora, è padrone di se stesso e amico degli uomini tutti.

Abbiamo dimenticato il passato, ne abbiamo fatto una statua da riverire mentre ce ne freghiamo sommessamente, ma il passato vive ancora; e ci sarà, probabilmente, anche dopo di noi, anche quando i nostri templi alla vanagloria saranno infranti dal tempo, inclemente.

domenica 19 dicembre 2010

Frammento numero due

Anche questo secondo frammento è stato scritto nel 2008.
E potrebbe probabilmente urtare la sensibilità di alcuni.

In sostanza, esprime il punto di vista di un umanista ateo (molto in piccolo dal punto di vista morale, io) davanti alle critiche e alle accuse di quanti seguono una religione trasformata soltanto in occasione di guadagno e strumento del potere.
Di certo, non è politicamente correttissimo. Ma non voglio che lo sia.


Sì, dio è morto.
Non l'ha ucciso questo o quel pensatore, e non l'hanno ucciso coloro che ne hanno riscontrato la morte. E non l'abbiamo ucciso noi, noi che viviamo consapevoli all'ombra del suo cadavere in putrefazione.

Siete stati voi.
Voi, che con le vostre parole fasulle di lode fraudolenta ne avete fatto un altro, l'ennesimo burattino nelle vostre mani, l'ennesima banderuola spiegata al vento del vostro orrore. Siete stati voi, voi che avete sporcato la sua perfezione con la volubilità delle vostre brame, con l'incostanza delle vostre pulsioni.

Siete voi, voi che impallidite di finto raccapriccio, voi che inveite indignati di una rabbia crudelmente vera contro di noi, noi che annunciamo a tutto il mondo l'avvenuto decesso di quel corpo putrefatto che vi ostinate a inalberare quale vessillo delle vostre perversioni, ombra minacciosa su quanti non la pensano come voi. Avete aperto la mente di un dio ormai morto, e l'avete riempita della vostra empietà; avete messo il vostro interesse al posto del suo cuore, proferite le vostre bestemmie con la sua bocca.

Voi, che chiamate relativismo, e la disprezzate, la nostra discrezione, ed elevate la vostra a saggezza. Voi, che tacciate di empietà la nostra coscienza, ed elevate le vostre bugie al rango di verità rivelata.

Siete voi, siete sempre stati voi. Voi ci avete tolto quanto era nostro, ci avete privati del nostro lume trapiantandolo in quel cadavere, il cui puzzo ormai basta a stento a coprire il fetore del vostro essere. Ci avete defraudati, chiamando sovversivi quanti si opponevano al vostro latrocinio e pazzi visionari quanti lo denunciavano.

Ma anche voi siete caduti, siete voi i dannati. Avete alimentato il vostro idolo con la vostra umanità, copiosa quanto mai è stata quella che strappaste, e ancora strappate, dai nostri corpi per mantenere l'orrida finzione con cui vi ammantate di pietà.

Siete grandi, sì, e volate alti, alti quanto gli angeli che pretendete di essere, alti quanto i nostri pensieri a cui avete strappato le ali per montarle sulle vostre spalle, parodia delle vostre stesse ambizioni.

E le vostre fila sono quanto mai folte: burattinai senz'anima, burattini privati della vista in una tenebra che spacciate per luce divina, contribuiscono entrambi alla vostra causa.
Voi siete molti.
Il vostro fetore richiama quanti non si inginocchiano davanti al cadavere che fingete di adorare, e il loro numero ingrossa le fila dei vostri.

Ma un cadavere non è vita, un cadavere è rigida necrosi e decadenza inarrestabile. E le nostre scintille pulsano e ardono nel petto del vostro burattino in capo. Si rivelano a chi sa guardarle, e la verità ineffabile che è di tutti noi, che era di tutti voi prima che ve ne privaste volontariamente offrendola in sacrificio a tutti gli incubi del vostro inferno, brilla più delle tenebre che ammantate di luce.

Voi siete molti e noi siamo pochi. Ma voi vivete nella menzogna, per noi è forza la verità.
Voi chiamate verità i vostri inganni, ma ignorate e tentate di nascondere la realtà dietro alla parola.
Voi fingete di adorare un dio, ma lo umiliate di giorno in giorno con godimento sempre maggiore.
Voi tacciate noi tutti di empietà, ma siete voi i veri empi.

Noi sappiamo vedere la vera realtà divina, che non si trova in un cadavere morto da ere, ma palpita negli uomini, è grande con loro, esiste in loro, in noi che la vediamo levarsi.
Esiste in noi, in tutti noi e in nessuno di noi, da solo. Esiste con noi, con noi tutti, ed esisterebbe anche con voi, ma voi l'avete ripudiata: avete ucciso in voi il dio che era di tutti, e in tutti, per crearne uno che fosse solo vostro e mugugnasse di piacere nello scoprire le vostre malefatte.

Tenetevi il vostro cadavere. Esso è infinitamente più piccolo quanto più infinitamente lo volete grande, e tanto più impotente quanto più riverite la sua supposta onnipotenza.

Il nostro dio è fallace, come noi tutti; il nostro dio è limitato, come noi tutti. Ma il nostro dio sa andare oltre i suoi limiti, sa superare se stesso, perché noi siamo il nostro dio, noi tutti. Non uno, elevato da voi a miraggio di cartapesta, ma tutti gli uomini assieme sanno essere dio. Un dio che soffre, che spera, che sa amare e migliorarsi. Un dio disperso, usurpato, ma vivo.

Un dio che vi giudica, e che non teme le vostre menzogne, poiché noi siamo verità.

mercoledì 15 dicembre 2010

Avventure per il mare - versione aggiornata

Alla fine, i lavori sono stati minori di quanto non avessi preventivato.

C'era la volontà di aggiungere nuove regole, di chiarire alcuni misteri, di parlare più diffusamente di alcune fonti di ispirazione...
... ma poi ho realizzato che le nuove regole avrebbero appesantito la lettura (davvero, con l'ottima guida per il game master di Pathfinder serve sul serio che ci siano già nel manuale d'ambientazione le regole per ogni città?), i misteri una volta chiariti avrebbero perso il loro fascino, e le fonti di ispirazione sono talmente numerose che per parlare di tutte loro come si deve servirebbe direttamente un altro manuale.

Perciò, le modifiche sono state alla fine piuttosto irrisorie: ho corretto qualche erroraccio di qua e di là, ho modificato una regola in base a quanto abbiamo stabilito in fase di playtest coi miei giocatori, e infine ho aggiunto alcuni tratti tipici dell'ambientazione.

Tutto qui.


Ora, il mio prossimo grande progetto per Pathfinder che non so quando vedrà la luce è un'ambientazione dark fantasy che potrà essere o meno collegata ad Avventure per il mare.


Avventure Per Il Mare - versione aggiornata

venerdì 10 dicembre 2010

Frammento numero uno

Ho deciso, a partire da oggi, di pubblicare sul blog anche un nuovo genere di testi che, pur scrivendo da anni, sono sempre stato molto restio a far circolare.

I primi di questi testi risalgono al 2008 e, collettivamente, li ho chiamati "frammenti". Frammenti perché, pur essendo tutti in prosa, hanno ciascuno tematiche e caratteristiche formali proprie.

I frammenti sono, complessivamente, delle riflessioni personali. Risalgono a periodi diversi, ma hanno tutti in comune l'essere nati da un'impressione, un'idea, un frammento di immaginazione dilatato in breve testo.

Nelle prossime settimane, cercherò di pubblicare i diversi frammenti che ho scritto fino ad ora.


Il primo frammento risale al settembre del 2008; l'ho pensato quand'ero in vacanza, mentre la trascrizione risale a qualche settimana dopo.

La furia di Achille ebbe il suo aedo: eternata da parole immortali, la memoria è sopravvissuta nelle ere.
La sua furia non avrà un aedo.
Gilgamesh eternò la sua stessa impresa, impressa in una stele che svetta fra le tenebre dei millenni perduti.
Egli sa che non potrà fare altrettanto.

La sua ira sarà senza cantore, e le sue parole si perderanno nel vento del tempo, flebili come un sussurro: si perderà la memoria di colui che è stato veramente, e resterà soltanto un ricordo distorto, un'oscura leggenda tramandata da subdoli nemici come storia buona solo a spaventare i bambini e screditare i sovversivi.

Egli lo sa.
E questo alimenta la sua ira: non sarà la parola, non sarà il verso, non sarà la pietra né la pergamena a tramandare le sue gesta. Saranno le sue gesta a tramandare se stesse.
Dove non arriverà il messaggio arriveranno le opere. Per questo raddoppia le forze, per questo alimenta l'ira con la furia, in un'aristia che non ha fine.

Piange di rabbia e freme, sa che di lui resterà solo un'ombra, poiché il gesto è muto: come un gigante di pietra, non testimonia altro se non se stesso. La sabbia del tempo si deposita su di esso, lo corrode, e dagli eoni emerge solo una sagoma scalfita e infranta, impossibile capire chi o cosa fosse, chi l'abbia costruito o perché. Resta solo lui, l'enigma, l'evidenza e lo stupore, forse l'ammirazione per chi ha saputo concepire qualcosa di tanto maestoso.

Ma la sua furia non è maestosa, non esiste carneficina che lo sia. Uccide, mostro fra i mostri, belva fra le belve, e si distingue dai caduti solo per la sua tenacia.

Esistono ragioni per la sua ira. Motivi e ragioni ineludibili, ed essa è ineluttabile come la morte, forse è la morte.

Egli sa; conosce le ragioni, e le conoscono i suoi avversari.
Ma le ragioni si perderanno, senza memoria: la ragione viaggia con la parola, la ragione è nella parola, e la logica del suo agire non trasparirà dalle gesta, pur grandiose, che sta compiendo. Di esse resterà solo l'orrore presente, eternato nel futuro.

Non gli è data la grazia dei vinti. Per Ettore caduto furono versate lacrime, e continueranno ad esserlo. Turno vive, fra i vinti tutti, nella memoria di quei vincitori che sanno vedere il cupo circolo della fortuna, nella memoria di quanti vedono nella rovina altrui il sopraggiungere della propria.

Ma egli sarà vincitore, oggi. Padrone del campo, abbattitore delle fila nemiche.

E vinto.

Unico, realmente vinto, schiacciato dai secoli che gli impongono il silenzio e lo privano della ragione agli occhi della posterità.

E sapendo questo, egli ride; una smorfia appena fra le lacrime, e il sangue.