mercoledì 9 settembre 2009

Una breve poesia d'amore, scritta ancora una volta cercando di eternare il momento e di rendere universale il sentimento di quell'attimo.

Amore, amore, sei dolce enigma:
Un attimo smanio, invasato,
Un attimo dopo calcolo, freddo,
Vantaggi o guadagni da te.
Ma poi si fa lucida la passione,
E la brama, calda, mi prende.
Vorrei provare un sentimento puro,
Ma i miei dubbi sono feroci.
Mi sento quasi orrore fra le bestie,
Mostro di menzogne triviali.
Eppure, quale sia il turbamento,
La tua vista mi dà certezza
E, calmando il patimento interiore,
Suscita nuovo desiderio.



Questo componimento, il più lungo che abbia scritto sino ad ora in versi, risale all'autunno scorso ed è stato più volte abbandonato e ripreso, riveduto e corretto.
Ho usato diversi metri nel comporlo: nelle strofe uso decasillabi e settenari per l'ultimo verso, mentre i ritornelli sono in endecasillabi.
E' un tentativo di rendere conto in una sorta di ballata della mia utopia sociale.

Un uomo, lui solo, si levò
Quando i tempi incombevano, oscuri.
I saggi, i sapienti, i molti santi
Risero: “Tu, pazzo e visionario,
Che cerchi mai nel mondo corrotto?
Noi soli abbiamo la verità.
Essa non è, no, del nostro mondo,
Ma noi ne abbiamo, vedi, la chiave.
Vieni a noi, umano disperato:
Solo così avrai ciò che cerchi.”
Ma l'uomo vide una cupa brama
Risplendente negli occhi dei santi,
I santi tanto amati dal mondo.
Allora se ne andò.

E così lasciò il suolo paterno,
Attraversò monti e valli, da solo,
Alla ricerca del sogno eterno,
Nella tempesta il suo unico molo.

Varcati appena i noti confini,
Giunse in una terra sconosciuta.
Altri là erano chiamati santi,
Altri, sì, ma simili ai profeti,
Falsi sapienti della sua gente,
Araldi della stessa menzogna.
“Non qui troverò la verità”,
Pensò l'uomo, misero viandante,
Sperduto nelle terre straniere.
E riprese il suo viaggio.

E così lasciò il suolo paterno,
Attraversò monti e valli, da solo,
Alla ricerca del sogno eterno,
Nella tempesta il suo unico molo.

Arrivò in un luogo lontano,
Ospitale l'accolse la gente.
Ma, nelle loro feste e canzoni,
Non trovava la gioia voluta
Perché essi, assieme, soli godevano:
Ognuno per se stesso, da solo.
Fuggì allora dal falso popolo
Che coi canti celava l'orrore
D'una massa solitaria e triste.
Fuggì, amareggiato.

E così lasciò il suolo paterno,
Attraversò monti e valli, da solo,
Alla ricerca del sogno eterno,
Nella tempesta il suo unico molo.

Andò oltre, lontano, in una terra
Dove voce era giunta dei santi,
Sapienti patrii della sua gente.
E quel popolo lontano, pazzo,
Riveriva i sacerdoti, oscuri
Tiranni dai quali era fuggito.
Le tenebre d'una menzogna
Coprivano là gli animi umani.
Non era lì, no, la verità.
Triste, l'uomo andò.

E così lasciò il suolo paterno,
Attraversò monti e valli, da solo,
Alla ricerca del sogno eterno,
Nella tempesta il suo unico molo.

Altre terre, ottenebrate, vide;
Andò oltre, fuggì. Alfine giunse
Al nero mare, mare divino,
Dove i naviganti han visto tutto
E d'ogni inganno hanno memoria.
Delusi, in tutto vedono inganni,
E neppure in se stessi hanno fede:
Scontenti, privi di verità.
Nessun gradito dono al viandante,
Ed egli proseguì.

E così lasciò il suolo paterno,
Attraversò monti e valli, da solo,
Alla ricerca del sogno eterno,
Nella tempesta il suo unico molo.

Tutto il mondo percorse, ramingo,
Ed in patria, afflitto, ritornò
Senza aver trovato verità.
Ma con lui, da ogni terra percorsa
Altri, simili, s'eran levati:
Assieme percorsero il mondo,
E allora vide alfine il vero.
Sì, l'uomo vide nei suoi compagni,
Fratelli per scelta, altri viandanti,
Quel dono che aveva cercato
Per terre e per mari, sempre invano.
Uniti, cercatori del vero,
In ciascun altro essi lo trovarono.

E così andarono per il mondo,
Non più raminghi, non più solitari,
Sicuri, decisi fino in fondo
A mostrare il vero ai propri pari.

E così andarono per il mondo,
Non più raminghi, non più solitari,
Sicuri, decisi fino in fondo
A mostrare il vero ai propri pari.

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