O anche "
yba ùùùù", noto anche come "
sbaglio a poggiar le dita sulla tastiera e mi salta fuori 'sto schifo di titolo"; è successo, non ridete.
Errori a parte, ho deciso di proporvi due poesie scritte fra oggi e ieri. La prima, che in verità era conclusa già ieri, è un brevissimo componimento. Metricamente sono due dei miei distici, niente di che; la vera particolarità, però, sta nel modo in cui ho voluto interrompere volontariamente una frase per riprendere, subito dopo, dando l'idea che ci fosse qualcosa in mezzo alle due parti della poesia - qualcosa che si è perso, o forse qualcosa che non sono riuscito a esprimere, o forse qualcosa che non si può esprimere.
Gesti consueti al mattino, consunti
Dagli anni e dai giorni,
Simili eppure...
… naufragi di sogni
Nel mare del tempo.
La seconda poesia è invece decisamente lunga (più di 40 distici se non ho contato male, ci avviciniamo ai 100 versi e a traguardo che raramente raggiungo in così poco tempo).
Per certi versi è un componimento ispirato, per altri è pura fantasia. Ma la "spiegazione" la rimando a dopo la lettura.
Venne la dama vestita di brina,
Tremante ed altera.
Labbra sbiadite d'azzurro, increspate
Appena in un riso
Perfido, forse, o soltanto inumato,
Sotteso, socchiuse,
Bianche sul bianco del volto, laddove
Brillavano al sole
Solo quegli occhi di ghiaccio bruciante.
Le candide chiome
Erano sciolte, e cadevano in ciocche
Bagnate di neve
Lungo le spalle adornate di nudo
Dell'esile dama.
Sono venuta, mi disse, a privarti
Di tutto, mortale.
Sono sorella di Morte, e di Vita, e
D'Amore. E come
Morte distoglie il respiro di Vita,
Così dell'Amore
Sono la sola, la vera nemica,
L'acerrima e fiera.
Sono la figlia del padre crudele,
L'Inverno impietoso.
Offrimi il petto, che possa strapparti
Dal cuore ogni caldo,
Puro sentire d'Amore. E lei pose
Sul petto le dita,
Tocco gentile di candida neve.
Ma subito, quasi,
Ella distolse la mano, tremando
D'orrore. Chi sei, mi
Chiese, chi sei, domandò, tu che solo
Non temi, mortale, il
Tocco impietoso del gelo nel cuore,
Chi sei, domandò con
Voce incrinata, capace tu solo
D'alzare lo sguardo
Cupo, fissarmi negli occhi di ghiaccio,
Chi sei, tu che solo
Nulla hai da perdere in petto, ma solo
Un pallido vuoto,
Quasi che nulla ti ispiri un sentire,
Vivendo una vita
Priva d'Amore anche senza di me, che
Dovrei dell'Amore
Essere il solo flagello, la sola
Che possa negarlo,
L'unica in grado ad un semplice tocco
D'uccidere Amore?
Ella tremava, e di colpo si sciolse in
Sorrisi ed in pianto.
Dimmi, sei forse anche tu, mio mortale
Creato dal freddo
Gelo d'Inverno, fratello e compagno
Per me, che da sempre
Soffro lo stesso dolore che infliggo
Con queste carezze?
Porse le mani, cercando un abbraccio.
Ed io la respinsi.
Risi, tenendo lontane le dita
Di lei che implorava.
Sono, mia misera dama, soltanto
L'ennesimo frutto,
Crudo e crudele, spietato, piantato
Da voi, gli immortali,
Senza riguardo nei nostri confronti
D'umani sognanti.
Vita mi diede i natali, e di Morte
Conobbi lo sguardo;
Sempre son stato schernito da Amore, il
Buffone deriso, al
Quale giocava gli scherzi crudeli
Di cui gli immortali
Sono capaci. Quel gelo che pensi
D'avere tu sola
Nacque nel cuore anche a me, senza padri
Né tocchi di dita.
Misera figlia d'Inverno, patisci
Quel male che doni:
Sola vendetta al mortale ferito
Ferire voi stessi.
Come scrivevo prima, questa poesia è in parte ispirazione, in parte elaborazione cosciente e razionale. E, nell'idea di un essere semplicemente indurito all'amore, quantomeno per qualche tempo, c'è senza dubbio un che di autobiografico. Ma l'immagine della mancanza d'amore portata da un'entità immaginata come donna di ghiaccio (quasi una amabile che porta al non amore, un ossimoro in effetti) non ha chiaramente molti riferimenti nel mondo reale. Fin qui l'ispirazione.
Poi la decisione razionale di fare di un componimento simile, che fino a un certo punto è caso perfetto ed esemplare di "romanticumine pseudospirituale", un inno all'umano che non ha bisogno di spiriti, entità eterne, immortali o altro.