E' un'idea che ho in mente da tempo: un'ambientazione ellenicizzante per D&D 5^ edizione, un ipotetico mondo fantasy standard in cui si trovano catapultati un gruppo di antichi Greci, la scusa per fondere due mie passioni, una delle quali è così grande che ne ho fatto la mia carriera (anche se i posti da insegnante di latino sono molti più rispetto a quelli come docente di greco). Solo che sono pigro, pigrissimo, e quindi anche di questo progetto rimane la consapevolezza che è un'idea forse scrausa e scontata, forse (penso spesso) fighissima, ma che non avrà mai una forma concreta e coerente se non al di fuori della mia mente.
"Quando il mio
sguardo si posò per la prima volta su Amphipolis, non potei evitare
di essere colto dalla meraviglia.
Non era quella la
prima città che vedevo: conoscevo bene le fortezze megalitiche dei
nani, le mura possenti tese fra torri ampie ed estese in profondità
quanto e forse più che sulla superficie del suolo; avevo osservato
con curioso interesse le piccole case degli gnomi, quegli agglomerati
di edifici squadrati in vetro e pietra artificiale che sembravano
alludere a qualcosa di più maestoso; né, ovviamente, mi erano
estranee le grandi capitali della mia terra, le maestose e discrete
torri degli elfi. In precedenza, avevo ritenuto che nessun altra
cultura potesse rivaleggiare con la bellezza delle dimore dei nostri
re: chi altri poteva edificare delle torri così slanciate,
capolavori di pietra che si fonde col legno in un armonioso abbraccio
fra natura e architettura?
Ma Amphipolis la
Duplice, la grande capitale degli umani, mandò in frantumi tutte le
mie certezze. Era come se gli dei avessero voluto ispirare i loro
favoriti con tutti quei doni che avevano diviso fra le altre stirpi,
permettendo loro di costruire la summa di tutto ciò che di grande e
maestoso esisteva al mondo.
Dalla nave potevo
scorgere i tetti dei templi, lontano sull’acropoli, che splendevano
al sole; i luccichii dorati confermavano le voci che avevo sentito
riguardo l’abitudine degli amfipoliti di decorare i palazzi con
metalli preziosi. Anche gli edifici minori, che si affastellavano
lungo le balze dei colli e diventavano quasi un’unica distesa
biancheggiante sulla costa occidentale, emanavano una nobile
semplicità capace di commuovere l’animo di un orco. Ma quello che
mi colpì maggiormente fu l’ampio portico che cingeva l’intero
porto di Amphipolis, proseguendo idealmente su entrambi gli scali le
arcate del grande ponte. Le sue colonne erano insieme possenti e
delicate, come le forme candide e seducenti di un dio; il marmo nero
dei pavimenti e dei plinti, più che a un criterio di comodità,
sembrava obbedire al desiderio di far risaltare ancor di più la
delicatezza dei pilastri e dei capitelli.
Solo in seguito
scoprii che quel portico maestoso, la Stoà Xenikè, era stata
costruita apposta per impressionare i visitatori e i mercanti
stranieri, e che in caso di bisogno le sue ampie arcate potevano
essere chiuse da possenti porte in metallo, benedette dai sacerdoti
di Efesto per resistere a ogni assedio. Né, d’altronde, gli umani
avrebbero potuto costruire un’opera tanto maestosa senza la
manodopera di migliaia e migliaia di schiavi, il cui sangue e sudore
avevano alimentato la grandezza della città.
“Le mura e i
palazzi di Amphipolis sono edificati sulle ossa dei suoi schiavi”,
mi dissi, ripetendo il vecchio adagio che una generazione prima aveva
spinto la mia gente, così come pressoché tutte le altre stirpi, a
una guerra senza quartiere contro gli amfipoliti. Era stato un
conflitto sanguinoso e tanto spietato quanto il crudele giogo degli
umani, a quanto mi era stato riferito da chi vi aveva preso parte.
Ma, alla fine, la confederazione aveva avuto la meglio: quali che
fossero le loro antiche abitudini, quali che fossero le usanze dei
loro avi helladiani, ora gli amfipoliti vivevano fra di noi, e
nessuna stirpe aveva mai trattato le altre come dei semplici oggetti
da possedere, degli animali da fatica dotati di due gambe anziché di
quattro zampe.
La liberazione degli
schiavi aveva provocato dei grossi mutamenti nella cultura di
Amphipolis, e ben presto scoprii che con l’affrancamento di massa
non aveva certo avuto termine l’oppressione degli umani sui propri
simili e sulle altre stirpi: ancora i mezzosangue vivevano in ghetti,
e ancora i più tradizionalisti fra popolani e nobili amfipoliti non
cercavano neppure di trattenersi dal dileggiare la parlata degli
stranieri.
Eppure, sentivo un
nuovo vento di cambiamento che soffiava sulla grande città e sulle
terre circostanti, leggero ma deciso come la brezza che gonfiava le
nostre vele; di quel cambiamento io e i miei compagni saremo stati
fra gli artefici, prima come semplici avventurieri e poi come agenti
scelti di Amphipolis e degli Dei Olimpi nelle terre circostanti… ma
questo, ancora, non potevo saperlo. Potevo solo trattenere il fiato,
in ammirazione, davanti alla magnificenza della Stoà Xenikè, e
domandarmi quale destino le Moire avrebbero intessuto per me."