giovedì 8 giugno 2017

E, quando sono giù, poesie

Apparentemente, le cose non vanno tanto male, non peggio di quanto siano andate negli ultimi due anni almeno. Anzi, finalmente pare che qualcosa si stia muovendo davvero per le possibilità di insegnamento, e io stesso mi sono dato e mi sto dando una smossa per arrivare puntuale all'appuntamento.
Però è lo stesso uno di quei momenti in cui anche la più stupida delle idiozie sembra capace di farmi star peggio.

E, l'avevo detto e lo ripeto, pare che io non sia in grado di scrivere poesie se non quando sono: a) giù come una corda tagliata sull'abisso; b) innamorato senza se e senza ma come un adolescente fuori tempo massimo.
Il tempo massimo, a quanto pare, si è finalmente concluso, o forse ho solo un "periodo di lutto" post-relazione conclusa che dura più di due anni, non so. Fatto sta che se qualcosa ha stuzzicato la mia vena poetica, ultimamente più secca di un rio nell'arsura di agosto, è stata la tristezza esistenziale più che la speranza di un amore. Mi deprimo ai cambi di stagione, c'è poco da aggiungere.
Cerchiamo di tirarne fuori qualcosa, allora. Due poesie nate dalla stessa sensazione, forse l'una la continuazione naturale dell'altra.


Stridore impalpabile, un vetro sottile
Mi separa dal mondo,
Soffoca i venti e le brezze,
Spalanca lo iato fra me
E questa danza che voglio giocare.


Come un recluso
Inspiro il mio stesso fetore - La vita
La vivo davvero? O piuttosto
Ho timore di lei, dei miei sogni,
Di queste passioni che fiuto nell'aria,
Di dire, di urlare che: "L'amo!"?

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