mercoledì 2 febbraio 2011

Frammento numero quattro

Ho scritto questo frammento, il primo da lungo tempo, negli ultimi mesi del 2010.
Forse, è il più "teorico" che abbia mai scritto. Si tratta, in un certo senso, della mia risposta alla comune idea di un "disegno" dietro all'esistenza umana.


Ci diciamo che tutto si sistema, che ogni filo si annoda con gli altri e che ogni nodo viene al pettine, quasi che ogni tessera, gettata disordinatamente sul tavolo e rimestata da una concatenazione di eventi caotica e truffaldina, finisca inevitabilmente per sistemarsi al suo posto, tracciando un disegno già progettato da una qualche non meglio precisata volontà.

Menzogne, nient'altro che menzogne.
Per ogni tessera che trova il suo posto, una cade dal tavolo fin dentro all'oblio; per ogni nodo che si scioglie il groviglio di un altro fagocita quel che gli sta attorno, e per ogni filo congiunto uno si agita fino a perdersi, inerte, senza uno scopo. Può essere rimosso dall'arazzo senza pregiudicarne in alcun modo la trama e il senso, poiché il senso è quel che sempre gli è mancato.

Mentiamo a noi stessi: alla ricerca spasmodica di un segno, di un disegno d'insieme nel quale riconoscere il nostro percorso vediamo un senso nella tempesta e mille vascelli nelle nuvole del cielo che la anima. Ma nessuna nave solca i venti, lo sappiamo, ed è il nostro occhio a ingannarci facendoci riconoscere forme note e gradite nel continuo mutare. Siamo noi a voler essere ingannati.
Ogni ritratto è un insieme di segni; l'incarnato più realistico alla fredda osservazione di una lente si rivela essere nient'altro che linee o macchie di colore sporco, ben lontano dall'infinitudine di vita e cellule che dovrebbe rappresentare. Siamo noi a dare un senso a questi segni, a vedere nelle curve e nei fori del marmo le forme di una dea, a riconoscere noi stessi in tanti microscopici puntini di tre miseri colori mischiati fra loro. Ma senza un occhio che li osservi, i ritratti restano macchie e convenzione, linee abbruttite e disarmoniche, lontane dal ritmo placido della natura reale.

Come ci inganna l'occhio, così ci inganna la mente. Come vediamo nell'intrico di colori che compongono un quadro le forme di un uomo morto da secoli, identificandolo per quel che sarebbe dovuto essere e non per quel che è stato, così vediamo nella concatenazione degli eventi che plasmano le nostre esistenze un disegno tangibile che ci riguarda, abito costruito attorno alle nostre colpe e alle nostre ambizioni. Sogni e illusioni, nient'altro che sogni e illusioni.

Ricostruiamo a posteriori un senso e un progetto la cui ineluttabile necessità deriva dal suo essersi già verificato: ricollochiamo noi stessi le tessere già cadute dove è rimasto un pertugio adeguato, limandone e spuntandone alcune col ricordo in modo da poterle inserire nella posizione che ci sembra erroneamente più consona. Indovini del passato, divinatori dell'accaduto, ci convinciamo talvolta di aver individuato il senso di questo grande progetto immaginario perché riusciamo, in virtù di un caso fortuito, a prevedere l'esatto andamento di un evento futuro. Ma, per ogni banalità necessaria che eleviamo ad attuazione della nostra volontà divinizzata, ignoriamo a bella posta dieci sorprese spiacevoli e impreviste.

Attribuiamo alla casualità e all'imprevedibile flusso di eventi, concatenati fra loro dal puro accidente e da un labile rapporto di causa ed effetto, la maestosità di un grande progetto. Sia dio a volerlo, la matematica a richiederlo o l'uomo a imporlo, quel che accade non è mai senza ragione ai nostri occhi, mai.
Abbiamo bisogno di convincerci dell'esistenza d'un progetto, di un disegno, per sfuggire alla minuta realtà del nostro essere: come una macchia sulla tela, così noi abbiamo senso solo all'interno di un disegno. In assenza di esso, siamo solo un'imperfezione, un velo di sporcizia, un aborto di quadro mai dipinto.

Ci è dato costruire il nostro destino, ma non a posteriori con opera di facile postprevisione e falsa sapienza: è l'avvenire che dobbiamo edificare, traendo da noi stessi la forza per fare di tutte le macchie-uomo un unico, grande ritratto sulla tela terracquea che ci troviamo ad occupare. Dobbiamo farci forza di lasciare alle tessere, cadute a caso nella pioggia degli avvenimenti, solo il pertugio stabilito, quello che le forzerà a creare un disegno, ora sì, prestabilito. Solo così ci sarà realmente un quadro d'insieme, solo così si vedrà realmente l'attuazione di un qualche progetto preesistente e non desunto a posteriori.

Tutto il resto è illusione, o vana speranza disattesa di umili uomini che si credono posti al centro dell'universo.

Nessun commento:

Posta un commento