Questo lavoro risale a parecchi anni fa, all'estate in cui il manuale dell'ultima edizione del gioco di ruolo di Star Wars era appena uscito e non esisteva ancora nessun supplemento.
Da bravo fan, avevo buttato giù statistiche -rigorosamente in inglese, dato che il manuale non era ancora stato tradotto- per un sacco di cose. E' stato il mio primo lavoro in inglese, e contiene di sicuro quintali di errori.
E' anche un lavoro che in parte "disconosco", non riconoscendomi più nei GdR su Star Wars della WotC (ho in cantiere un mio progetto che, quando e se vedrà la luce, condividerò con tutti qui sul blog), e sul quale non posso vantare nessun diritto: le meccaniche sono semplice derivazione da quelle WotC ufficiali, e le idee dietro alle regole derivano chiaramente dalla "galassia lontana" di Star Wars.
Ma, in un periodo nel quale causa esami e impegni di modellismo ho poco tempo per creare nuove regole, penso che anche questo piccolo aggiornamento possa essere qualcosa di gidierristicamente interessante.
Additional Rules for Star Wars Saga Edition
Principalmente giochi di ruolo, ma anche modellismo. Riflessioni e poesie, quando sono in vena. Quel che di volta in volta mi sento di condividere, insomma.
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sabato 26 febbraio 2011
venerdì 18 febbraio 2011
Ispirato da un cielo nuvoloso
Ho iniziato a scrivere questa poesia mercoledì, e l'ho finita di scrivere stamattina.
Lo spunto mi è venuto, verso le otto di sera, dal vedere la luna quasi piena velata da qualche nube sottile, del tipo che rimane nel cielo dopo qualche ora di pioggia.
Oggi la luna evocava un antico
Racconto perduto,
Mentre nel cielo brillava, velata
Da nubi sottili,
Quasi completa di luce e candore,
Memoria o mistero.
Fredda, una lunga carezza del vento
Svelava il suo volto
Pallido. A lungo ho tentato, ma invano,
Con l'anima e gli occhi,
Pura d'averne l'immagine piena
Specchiata nel vuoto,
Nero e curioso, che il cielo scrutava
Cercando risposte.
Lievi, sottili, le nuvole rade
Danzavano attorno
Bianco al mistero che invano guardavo
Con occhi rapiti.
Fermo, ho scrutato per lunghi momenti
Quel volto celeste.
Niente da lei trapelava: le nubi,
Nient'altro, vedevo.
Colta la forma, sfuggiva il colore
Lunare, nascosto
Sotto al suo velo che tanto mistero
Sembrava donare
Cupo a quel cielo. Ma quando lo sguardo,
Levato di nuovo,
Priva la luna rivide di nubi,
Del velo pudico,
Tutto scomparve il mistero, il segreto
Svaniva nel bianco.
Lo spunto mi è venuto, verso le otto di sera, dal vedere la luna quasi piena velata da qualche nube sottile, del tipo che rimane nel cielo dopo qualche ora di pioggia.
Oggi la luna evocava un antico
Racconto perduto,
Mentre nel cielo brillava, velata
Da nubi sottili,
Quasi completa di luce e candore,
Memoria o mistero.
Fredda, una lunga carezza del vento
Svelava il suo volto
Pallido. A lungo ho tentato, ma invano,
Con l'anima e gli occhi,
Pura d'averne l'immagine piena
Specchiata nel vuoto,
Nero e curioso, che il cielo scrutava
Cercando risposte.
Lievi, sottili, le nuvole rade
Danzavano attorno
Bianco al mistero che invano guardavo
Con occhi rapiti.
Fermo, ho scrutato per lunghi momenti
Quel volto celeste.
Niente da lei trapelava: le nubi,
Nient'altro, vedevo.
Colta la forma, sfuggiva il colore
Lunare, nascosto
Sotto al suo velo che tanto mistero
Sembrava donare
Cupo a quel cielo. Ma quando lo sguardo,
Levato di nuovo,
Priva la luna rivide di nubi,
Del velo pudico,
Tutto scomparve il mistero, il segreto
Svaniva nel bianco.
sabato 12 febbraio 2011
Frammento numero cinque
Questo è, attualmente, l'ultimo frammento che ho scritto.
E' una riflessione su quel che comporta la crescita, e sullo scoprirsi piano piano sempre più simili all'adulto che si diventerà.
L'ho scritta nero su bianco solo un mese fa, ma è un'idea su cui medito da tempo.
Verrà il momento, lo so. Se, come spero, i miei anni non si concluderanno prima, anche per me verrà quel tempo.
Si cambia un po' ogni giorno, e una parte di noi muore quotidianamente: solo gli idioti vedono il mutare come qualcosa di delimitato da un inizio e da una fine.
Eppure -è innegabile- in ogni cambiamento c'è un attimo, un brevissimo istante nel quale il processo, prima impercettibile, si palesa e i suoi effetti iniziano a emergere preponderanti rispetto al passato e alle loro stesse cause. È il momento nel quale ciò che era smette di essere, e soccombe a ciò che sarà e che già è; è il vertice del mutamento: il cambiamento continuerà, ma la via è già tracciata e nessuno sforzo o miracolo potrà resuscitare il passato.
Il me stesso passato.
L'adolescenza è l'età dei sogni, degli ideali, delle vele gonfie di ambizione spiegate al vento illusorio di un destino sofferente. È il periodo dei contrasti, del desiderio spasmodico e dell'impeto eroicomico di finta individualità, è il periodo suggestionabile e colmo di orrori in agguato del sogno ad occhi aperti. Ma il sogno finisce, e raramente è profetico.
Quando l'adolescenza passa, e poco a poco ci si scopre ogni mattina più simili all'uomo che al ragazzo, dei sogni di un tempo restano solo i cocci e qualche pallida rappresentazione, sbiadita come un sole di cartone gettato a terra in un giorno di pioggia. E i tuoi compagni di sogni, questi fratelli di speranza, non sono immuni a tale disincanto.
L'amico dell'infanzia? Eccolo, fucile in mano, soldato per scelta di disperazione, abbonato a un destino che lo condannerà a dispensare morte con la stessa distratta malagrazia che un giorno scandirà lo scoppio della sua ultima ora.
Lo spirito affine? Inserito, anche troppo bene, nel fango di un tempo dove ora sguazza come un pesce d'altura; metterà la testa a posto e si laureerà prima dei venticinque anni, a trenta metterà su famiglia e a quaranta divorzierà a causa di una giovane amante, naturalmente pagando alimenti a moglie e figli. Un destino già scritto e illustrato lungo il muro di cinta del tempio di Santa Banalità Borghese, protettrice di chi ha smesso di sognare.
E l'allievo, la tua speranza, quello che speravi di formare? Eccolo lì, perso in un tentativo di evasione dal dolore della realtà mediante il più squallido dei rimedi, il più banale dei mali, con il cervello sempre più sfumato man mano che il fumo stesso diventa il suo piacere massimo e il principe della sua anima. I suoi sogni non moriranno poco a poco come i tuoi, no, si avvizziranno e cadranno a terra solo per essere conservati, squallidi fiori affumicati, in una teca al museo della gioventù bruciata.
Il dolore è misto alla malinconia, perché sai di non essere da meno. Il tuo destino non è quello di un assassino a pagamento, sicario del potere, no; e non sei neppure un iniziato alla via del pescecane, promettente cenobita dello squallore chiamato società; e di certo nessuno ti può chiamare schiavo dei vizi, poiché hai finalmente imparato a dominarli.
Ma anche tu sei cambiato, e qualcosa si è rotto anche in te. Lo sai bene dopotutto, sai bene che un oggetto riparato non è un oggetto nuovo e che neppure il collante più saldo ripristina l'antica unità frantumata: resteranno sempre le linee di rottura, suscettibili al minimo urto e pronte a sfaldarsi come rughe di dolore.
Lo so bene, sì.
So che non sono più quello degli anni passati, e so che non posso ignorare questo cambiamento fingendo di riedificare un me stesso ormai trapassato.
Ma che cosa sono, chi o cosa diventerò, questo mi è ancora ignoto. È mio destino rinnegare tutti i miei ideali per disperazione? O sarà la banalità del mondo a reclamarmi a sé? O, forse, toccherà anche a me gonfiare di illusione i miei sogni fino a perdermi nel vuoto della coscienza?
Non lo so. Posso solo sperare che quel nucleo di identità, l'infinitesimale e onnipresente sistema di ideali e conoscenze, pensieri e speranze che considero “me stesso” continui a costituire il centro gravitazionale del me stesso futuro. Posso solo sperare, un domani, di poter fissare il mio volto allo specchio vedendo, oltre i tratti somatici alterati dall'età e da chissà quale futuro estetico oggi imponderabile, un uomo di cui l'adolescente che sono stato e il giovane adulto che sto diventando sarebbero andati fieri.
Una speranza umile, in apparenza. O forse no. Lo ignoro. Continuo a reclamare, nello svanire dei sogni al risveglio nella dura realtà, il mio diritto di restare sempre me stesso contro ogni avversità e seduzione del mondo.
E' una riflessione su quel che comporta la crescita, e sullo scoprirsi piano piano sempre più simili all'adulto che si diventerà.
L'ho scritta nero su bianco solo un mese fa, ma è un'idea su cui medito da tempo.
Verrà il momento, lo so. Se, come spero, i miei anni non si concluderanno prima, anche per me verrà quel tempo.
Si cambia un po' ogni giorno, e una parte di noi muore quotidianamente: solo gli idioti vedono il mutare come qualcosa di delimitato da un inizio e da una fine.
Eppure -è innegabile- in ogni cambiamento c'è un attimo, un brevissimo istante nel quale il processo, prima impercettibile, si palesa e i suoi effetti iniziano a emergere preponderanti rispetto al passato e alle loro stesse cause. È il momento nel quale ciò che era smette di essere, e soccombe a ciò che sarà e che già è; è il vertice del mutamento: il cambiamento continuerà, ma la via è già tracciata e nessuno sforzo o miracolo potrà resuscitare il passato.
Il me stesso passato.
L'adolescenza è l'età dei sogni, degli ideali, delle vele gonfie di ambizione spiegate al vento illusorio di un destino sofferente. È il periodo dei contrasti, del desiderio spasmodico e dell'impeto eroicomico di finta individualità, è il periodo suggestionabile e colmo di orrori in agguato del sogno ad occhi aperti. Ma il sogno finisce, e raramente è profetico.
Quando l'adolescenza passa, e poco a poco ci si scopre ogni mattina più simili all'uomo che al ragazzo, dei sogni di un tempo restano solo i cocci e qualche pallida rappresentazione, sbiadita come un sole di cartone gettato a terra in un giorno di pioggia. E i tuoi compagni di sogni, questi fratelli di speranza, non sono immuni a tale disincanto.
L'amico dell'infanzia? Eccolo, fucile in mano, soldato per scelta di disperazione, abbonato a un destino che lo condannerà a dispensare morte con la stessa distratta malagrazia che un giorno scandirà lo scoppio della sua ultima ora.
Lo spirito affine? Inserito, anche troppo bene, nel fango di un tempo dove ora sguazza come un pesce d'altura; metterà la testa a posto e si laureerà prima dei venticinque anni, a trenta metterà su famiglia e a quaranta divorzierà a causa di una giovane amante, naturalmente pagando alimenti a moglie e figli. Un destino già scritto e illustrato lungo il muro di cinta del tempio di Santa Banalità Borghese, protettrice di chi ha smesso di sognare.
E l'allievo, la tua speranza, quello che speravi di formare? Eccolo lì, perso in un tentativo di evasione dal dolore della realtà mediante il più squallido dei rimedi, il più banale dei mali, con il cervello sempre più sfumato man mano che il fumo stesso diventa il suo piacere massimo e il principe della sua anima. I suoi sogni non moriranno poco a poco come i tuoi, no, si avvizziranno e cadranno a terra solo per essere conservati, squallidi fiori affumicati, in una teca al museo della gioventù bruciata.
Il dolore è misto alla malinconia, perché sai di non essere da meno. Il tuo destino non è quello di un assassino a pagamento, sicario del potere, no; e non sei neppure un iniziato alla via del pescecane, promettente cenobita dello squallore chiamato società; e di certo nessuno ti può chiamare schiavo dei vizi, poiché hai finalmente imparato a dominarli.
Ma anche tu sei cambiato, e qualcosa si è rotto anche in te. Lo sai bene dopotutto, sai bene che un oggetto riparato non è un oggetto nuovo e che neppure il collante più saldo ripristina l'antica unità frantumata: resteranno sempre le linee di rottura, suscettibili al minimo urto e pronte a sfaldarsi come rughe di dolore.
Lo so bene, sì.
So che non sono più quello degli anni passati, e so che non posso ignorare questo cambiamento fingendo di riedificare un me stesso ormai trapassato.
Ma che cosa sono, chi o cosa diventerò, questo mi è ancora ignoto. È mio destino rinnegare tutti i miei ideali per disperazione? O sarà la banalità del mondo a reclamarmi a sé? O, forse, toccherà anche a me gonfiare di illusione i miei sogni fino a perdermi nel vuoto della coscienza?
Non lo so. Posso solo sperare che quel nucleo di identità, l'infinitesimale e onnipresente sistema di ideali e conoscenze, pensieri e speranze che considero “me stesso” continui a costituire il centro gravitazionale del me stesso futuro. Posso solo sperare, un domani, di poter fissare il mio volto allo specchio vedendo, oltre i tratti somatici alterati dall'età e da chissà quale futuro estetico oggi imponderabile, un uomo di cui l'adolescente che sono stato e il giovane adulto che sto diventando sarebbero andati fieri.
Una speranza umile, in apparenza. O forse no. Lo ignoro. Continuo a reclamare, nello svanire dei sogni al risveglio nella dura realtà, il mio diritto di restare sempre me stesso contro ogni avversità e seduzione del mondo.
mercoledì 2 febbraio 2011
Frammento numero quattro
Ho scritto questo frammento, il primo da lungo tempo, negli ultimi mesi del 2010.
Forse, è il più "teorico" che abbia mai scritto. Si tratta, in un certo senso, della mia risposta alla comune idea di un "disegno" dietro all'esistenza umana.
Ci diciamo che tutto si sistema, che ogni filo si annoda con gli altri e che ogni nodo viene al pettine, quasi che ogni tessera, gettata disordinatamente sul tavolo e rimestata da una concatenazione di eventi caotica e truffaldina, finisca inevitabilmente per sistemarsi al suo posto, tracciando un disegno già progettato da una qualche non meglio precisata volontà.
Menzogne, nient'altro che menzogne.
Per ogni tessera che trova il suo posto, una cade dal tavolo fin dentro all'oblio; per ogni nodo che si scioglie il groviglio di un altro fagocita quel che gli sta attorno, e per ogni filo congiunto uno si agita fino a perdersi, inerte, senza uno scopo. Può essere rimosso dall'arazzo senza pregiudicarne in alcun modo la trama e il senso, poiché il senso è quel che sempre gli è mancato.
Mentiamo a noi stessi: alla ricerca spasmodica di un segno, di un disegno d'insieme nel quale riconoscere il nostro percorso vediamo un senso nella tempesta e mille vascelli nelle nuvole del cielo che la anima. Ma nessuna nave solca i venti, lo sappiamo, ed è il nostro occhio a ingannarci facendoci riconoscere forme note e gradite nel continuo mutare. Siamo noi a voler essere ingannati.
Ogni ritratto è un insieme di segni; l'incarnato più realistico alla fredda osservazione di una lente si rivela essere nient'altro che linee o macchie di colore sporco, ben lontano dall'infinitudine di vita e cellule che dovrebbe rappresentare. Siamo noi a dare un senso a questi segni, a vedere nelle curve e nei fori del marmo le forme di una dea, a riconoscere noi stessi in tanti microscopici puntini di tre miseri colori mischiati fra loro. Ma senza un occhio che li osservi, i ritratti restano macchie e convenzione, linee abbruttite e disarmoniche, lontane dal ritmo placido della natura reale.
Come ci inganna l'occhio, così ci inganna la mente. Come vediamo nell'intrico di colori che compongono un quadro le forme di un uomo morto da secoli, identificandolo per quel che sarebbe dovuto essere e non per quel che è stato, così vediamo nella concatenazione degli eventi che plasmano le nostre esistenze un disegno tangibile che ci riguarda, abito costruito attorno alle nostre colpe e alle nostre ambizioni. Sogni e illusioni, nient'altro che sogni e illusioni.
Ricostruiamo a posteriori un senso e un progetto la cui ineluttabile necessità deriva dal suo essersi già verificato: ricollochiamo noi stessi le tessere già cadute dove è rimasto un pertugio adeguato, limandone e spuntandone alcune col ricordo in modo da poterle inserire nella posizione che ci sembra erroneamente più consona. Indovini del passato, divinatori dell'accaduto, ci convinciamo talvolta di aver individuato il senso di questo grande progetto immaginario perché riusciamo, in virtù di un caso fortuito, a prevedere l'esatto andamento di un evento futuro. Ma, per ogni banalità necessaria che eleviamo ad attuazione della nostra volontà divinizzata, ignoriamo a bella posta dieci sorprese spiacevoli e impreviste.
Attribuiamo alla casualità e all'imprevedibile flusso di eventi, concatenati fra loro dal puro accidente e da un labile rapporto di causa ed effetto, la maestosità di un grande progetto. Sia dio a volerlo, la matematica a richiederlo o l'uomo a imporlo, quel che accade non è mai senza ragione ai nostri occhi, mai.
Abbiamo bisogno di convincerci dell'esistenza d'un progetto, di un disegno, per sfuggire alla minuta realtà del nostro essere: come una macchia sulla tela, così noi abbiamo senso solo all'interno di un disegno. In assenza di esso, siamo solo un'imperfezione, un velo di sporcizia, un aborto di quadro mai dipinto.
Ci è dato costruire il nostro destino, ma non a posteriori con opera di facile postprevisione e falsa sapienza: è l'avvenire che dobbiamo edificare, traendo da noi stessi la forza per fare di tutte le macchie-uomo un unico, grande ritratto sulla tela terracquea che ci troviamo ad occupare. Dobbiamo farci forza di lasciare alle tessere, cadute a caso nella pioggia degli avvenimenti, solo il pertugio stabilito, quello che le forzerà a creare un disegno, ora sì, prestabilito. Solo così ci sarà realmente un quadro d'insieme, solo così si vedrà realmente l'attuazione di un qualche progetto preesistente e non desunto a posteriori.
Tutto il resto è illusione, o vana speranza disattesa di umili uomini che si credono posti al centro dell'universo.
Forse, è il più "teorico" che abbia mai scritto. Si tratta, in un certo senso, della mia risposta alla comune idea di un "disegno" dietro all'esistenza umana.
Ci diciamo che tutto si sistema, che ogni filo si annoda con gli altri e che ogni nodo viene al pettine, quasi che ogni tessera, gettata disordinatamente sul tavolo e rimestata da una concatenazione di eventi caotica e truffaldina, finisca inevitabilmente per sistemarsi al suo posto, tracciando un disegno già progettato da una qualche non meglio precisata volontà.
Menzogne, nient'altro che menzogne.
Per ogni tessera che trova il suo posto, una cade dal tavolo fin dentro all'oblio; per ogni nodo che si scioglie il groviglio di un altro fagocita quel che gli sta attorno, e per ogni filo congiunto uno si agita fino a perdersi, inerte, senza uno scopo. Può essere rimosso dall'arazzo senza pregiudicarne in alcun modo la trama e il senso, poiché il senso è quel che sempre gli è mancato.
Mentiamo a noi stessi: alla ricerca spasmodica di un segno, di un disegno d'insieme nel quale riconoscere il nostro percorso vediamo un senso nella tempesta e mille vascelli nelle nuvole del cielo che la anima. Ma nessuna nave solca i venti, lo sappiamo, ed è il nostro occhio a ingannarci facendoci riconoscere forme note e gradite nel continuo mutare. Siamo noi a voler essere ingannati.
Ogni ritratto è un insieme di segni; l'incarnato più realistico alla fredda osservazione di una lente si rivela essere nient'altro che linee o macchie di colore sporco, ben lontano dall'infinitudine di vita e cellule che dovrebbe rappresentare. Siamo noi a dare un senso a questi segni, a vedere nelle curve e nei fori del marmo le forme di una dea, a riconoscere noi stessi in tanti microscopici puntini di tre miseri colori mischiati fra loro. Ma senza un occhio che li osservi, i ritratti restano macchie e convenzione, linee abbruttite e disarmoniche, lontane dal ritmo placido della natura reale.
Come ci inganna l'occhio, così ci inganna la mente. Come vediamo nell'intrico di colori che compongono un quadro le forme di un uomo morto da secoli, identificandolo per quel che sarebbe dovuto essere e non per quel che è stato, così vediamo nella concatenazione degli eventi che plasmano le nostre esistenze un disegno tangibile che ci riguarda, abito costruito attorno alle nostre colpe e alle nostre ambizioni. Sogni e illusioni, nient'altro che sogni e illusioni.
Ricostruiamo a posteriori un senso e un progetto la cui ineluttabile necessità deriva dal suo essersi già verificato: ricollochiamo noi stessi le tessere già cadute dove è rimasto un pertugio adeguato, limandone e spuntandone alcune col ricordo in modo da poterle inserire nella posizione che ci sembra erroneamente più consona. Indovini del passato, divinatori dell'accaduto, ci convinciamo talvolta di aver individuato il senso di questo grande progetto immaginario perché riusciamo, in virtù di un caso fortuito, a prevedere l'esatto andamento di un evento futuro. Ma, per ogni banalità necessaria che eleviamo ad attuazione della nostra volontà divinizzata, ignoriamo a bella posta dieci sorprese spiacevoli e impreviste.
Attribuiamo alla casualità e all'imprevedibile flusso di eventi, concatenati fra loro dal puro accidente e da un labile rapporto di causa ed effetto, la maestosità di un grande progetto. Sia dio a volerlo, la matematica a richiederlo o l'uomo a imporlo, quel che accade non è mai senza ragione ai nostri occhi, mai.
Abbiamo bisogno di convincerci dell'esistenza d'un progetto, di un disegno, per sfuggire alla minuta realtà del nostro essere: come una macchia sulla tela, così noi abbiamo senso solo all'interno di un disegno. In assenza di esso, siamo solo un'imperfezione, un velo di sporcizia, un aborto di quadro mai dipinto.
Ci è dato costruire il nostro destino, ma non a posteriori con opera di facile postprevisione e falsa sapienza: è l'avvenire che dobbiamo edificare, traendo da noi stessi la forza per fare di tutte le macchie-uomo un unico, grande ritratto sulla tela terracquea che ci troviamo ad occupare. Dobbiamo farci forza di lasciare alle tessere, cadute a caso nella pioggia degli avvenimenti, solo il pertugio stabilito, quello che le forzerà a creare un disegno, ora sì, prestabilito. Solo così ci sarà realmente un quadro d'insieme, solo così si vedrà realmente l'attuazione di un qualche progetto preesistente e non desunto a posteriori.
Tutto il resto è illusione, o vana speranza disattesa di umili uomini che si credono posti al centro dell'universo.
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