Qualche giorno fa ho pubblicato il resoconto narrativizzato di un sogno inquietante, accennando al fatto che un altro sogno mi aveva ispirato un'altra composizione destinata a finire sul blog.
Ho sognato
Che eri persa, perduta, eri scomparsa
E non sapevo se ti amavo,
O se soltanto
Soffrivo di empatia per te,
Che ti eri persa.
Anche in questo caso, il sogno galeotto è stato qualcosa di angosciante da vivere, un incubo però senza mostri né orrori apparenti dal quale ti risvegli solo quando riesci a capirne la vera essenza. Nella mia realtà onirica, una ragazza che conosco era scomparsa nel nulla, come volatilizzata; parenti e amici la cercavano, ma nessuno riusciva a capire che fine avesse fatto e, come sempre accade, poco a poco la speranza scemava e dava vita ai peggiori timori.
Una ragazza che conosco, ma con cui non ci è incontrati più di una manciata di volte; la reputo simpatica, ha degli occhi fantastici in cui ci si potrebbe perdere, ma la distanza a cui ormai mi tengo abitualmente da pressoché chiunque ha sempre bloccato ogni ipotetica velleità sentimentale. Nel sogno, però, il sentimento c'era e c'era eccome; un sentimento inespresso, ma non per questo meno intenso, quantomeno da parte mia: proprio perché inespresso, era stato condannato a non venir mai ricambiato.
Da questo scaturiva la mia angoscia. Una angoscia da cui non riuscivo a uscire in nessun modo, una sofferenza che mi attanagliava mentre la mancanza di notizie si susseguiva con ricerche sempre meno convinte.
Poi, alla fine, il dubbio risolutivo, la certezza di un'incertezza che in qualche modo scioglieva la tensione e mi permetteva di uscire dall'incubo: davvero ero innamorato di lei? O la mia non era, piuttosto, semplice empatia, l'umanissima sofferenza per le sventure di qualcuno che conosciamo, qualcuno che non possiamo considerare "un altro" di cui può lecitamente non importarci niente?
Questo dubbio mi ha svegliato; o, forse, era sempre stata questa la più grande angoscia che pativo durante il sogno. La poesia, scritta di getto, è stata vista e rivista e riscritta e ricorretta per una settimana, ma ancora non ho una risposta all'ultimo quesito.
Principalmente giochi di ruolo, ma anche modellismo. Riflessioni e poesie, quando sono in vena. Quel che di volta in volta mi sento di condividere, insomma.
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martedì 29 agosto 2017
domenica 27 agosto 2017
Sogni inquietanti di sabato notte
Questo aggiornamento del blog non è qualcosa che avessi pensato o previsto; avevo sì in mente di scrivere qualcosa, ma pensavo che sarebbe stato un che di diverso. Purtroppo, ho la mano sinistra molto indolenzita e devo rinunciare per un po' alla pittura, con la conseguenza di non poter fornire aggiornamenti modellistici, e non ho ancora finito di rivedere la poesia che avrei voluto pubblicare.
Per fortuna, la notte mi ha portato un inquietante consiglio: un incubo molto fastidioso e disturbante, una potenziale tragedia che poi si risolve in farsa, se non altro la testimonianza di quanto un sogno possa essere angosciante e rivoltarsi in commedia.
E no, prima che ve lo chiediate proprio ieri non ho fatto baldoria in alcun modo, non c'è nessuna inesistente sbornia alcolica a cui imputare il sogno, frutto unicamente di quegli strani passaggi mentali che ci prendono di tanto in tanto e producono novità interessanti collegando frammenti di ricordi e di idee in un
Non sapevo come fosse iniziato, quando presi a interessarmi a lui era già un personaggio noto in tutta la comunità, uno su cui solo la mia ritrosia nell'approcciarmi al contemporaneo mi aveva impedito di informarmi a dovere.
E che personaggio che era! A tutt'oggi penso che nessuno sappia da dove avesse avuto origine, per quanto il solo pensiero che possano esisterne o esserne esistiti altri come lui è abbastanza per farmi accapponare la pelle. Era venuto alla civiltà abbandonando una zona boschiva, forse luogo di indicibili esperimenti o sede di antiche civiltà, dopo che qualcosa lo aveva risvegliato dal suo sonno millenario, ultimo della sua specie; o, quantomeno, questo era quello che lui sosteneva. Non lo si poteva definire umano, né assomigliava a qualsivoglia altra creatura della cui esistenza l'uomo avesse mai avuto sentore; impacciato e strabordante di obesità, più ombra che carne, si era dimostrato subito un abile conversatore, rapido nel padroneggiare la nostra lingua e capace di accattivarsi le simpatie di tutti. Quasi di tutti.
Qualcosa, in lui, non mi convinceva; non era il solito personaggio del momento, l'atteso fenomeno dell'estate, il cantante destinato a sparire nell'oblio dei suoi epigoni, la moda passeggera da mettere nello scatolone del dimenticatoio fino alla prossima mania del vintage. No, ero sicuro che ci fosse qualcosa di inquietante nei suoi modi affabili, che la sua melensa cordialità nascondesse in realtà un ingegno molto più sinistro. Egli, che aveva sempre fame, veniva invitato a tutti i più esclusivi banchetti che si tenevano nella città, dove la crema della società si deliziava del modo in cui, fra una osservazione sagace e un forbito complimento, questa reliquia vivente divorava le più elaborate pietanze come se fossero listelli di patatine fritte nell'olio stantio di un qualche fast food.
Mi interessai a lui perché, d'improvviso, la sua fame insaziabile iniziò a generare dei frutti: dalla materia organica che fagocitava avevano avuto origine uno stuolo di esseri antropomorfi, come lui più ombra che carne, quasi sagome o sacche di oscurità tenuta in piedi da un'esoscheletro di nera notte. Da pochi che erano, gli esseri divennero sempre di più, una visione comune nelle sere cittadine, quando già uscivano dai loro nascondigli diurni e ancora la pallida luce del tramonto permetteva di scorgerli.
Come il loro progenitore, anche questi esseri erano famelici e insaziabili; ma, a differenza di ciò che li aveva generati, non erano attratti da pietanze raffinate quanto dalla carne, tiepida di sangue, di tutto ciò che in città respirava e viveva. Le prime sparizioni passarono inosservate: senzatetto, immigrati e altri "invisibili" a cui nessuno aveva mai prestato reale attenzione. Forse, se fossimo intervenuti allora sarebbe ancora stato possibile evitare le peggiori conseguenze; come se lo sterminio discreto degli ultimi non fosse già una terribile, disumana conseguenza.
La ferocia delle progenie esplose apertamente quando ogni maschera di benevolenza scomparve dal volto grottesco e indefinibile dell'entità che le aveva messe al mondo. Ben presto le strade furono affollate dalle loro sagome mute, i pochi che ancora si venturavano fuori dalle abitazioni facile preda di quelle ombre nere che li fagocitavano e divoravano, senza lasciare un solo resto dei miserabili e sfortunati pasti. La notte sembrava non avere mai fine, e forse il giorno era ormai un ricordo lontano di tempi migliori, di quando la luce non era più l'ambito sprazzo di un lampione malfunzionante ma un ambito dono che noi sciocchi davamo banalmente per scontato. Vivevamo barricati ai piani superiori delle nostre case, le porte sprangate e gli occhi vigili a indagare dalle finestre, come mesmerizzati dall'incomprensibile schema delle ombre che camminavano lente fuori dai nostri cortili, una minaccia muta e costante.
Qualche temerario osava uscire nei balconi, per vigilare meglio e altrettanto inutilmente sulle onnipresenti sagome; io ero fra questi, sprezzante di un pericolo che non correvo, troppo timoroso per affrontare realmente le creature della notte.
Nel tempo libero mi ero sempre interessato di esoterismi e mitologie varie, sia reali che fittizie, e dei vari sogni e deliri nei quali gli uomini avevano nel corso del tempo riposto la loro fede e speranza. Il soprannaturale, per me, era finito per diventare un banale luogo della mente, un insieme di cognizioni e nozionismo inutile al cui studio mi dedicavo per meglio comprendere l'uomo, l'animale che quelle favole aveva elaborato; non avevo mai escluso la possibilità che ci fosse in almeno alcune di quelle leggende o visioni un che di reale, ma semplicemente avevo sempre ritenuto e ritenevo ancora che, nel momento in cui si fosse palesato come reale, il soprannaturale avrebbe smesso di essere tale e sarebbe entrato a buon diritto fra i fenomeni naturali, percettibili e studiabili del nostro mondo.
Eppure, perfino uno scettico disilluso come me era costretto a riconoscere l'innaturalità di quegli esseri di tenebra che ci tenevano prigionieri, invisibili e famelici carcerieri d'ombra. Le armi avevano fallito, poiché non esiste lama per quanto affilata, proiettile per quanto rovente, che possa fendere l'oscurità e impedirle di riformarsi nuovamente. La luce del sole ci aveva protetto, ma ora la tenebra era la sola sovrana del nostro mondo.
Posto davanti a un fenomeno di tale portata, mi trovai come tutti costretto a rivedere quelle posizioni che davo per assodate: non un diavolo ci aveva condannato con le sue illusioni tentatrici, non un dio era intervenuto per salvare gli eletti e i devoti, non una voce aveva risposto a suppliche e preghiere, non un patrono aveva accettato le offerte dei disperati. I teologi e i sacerdoti giacevano, muti, in preda allo sconforto, tacevano per non dar voce alla disperazione di chi scopre, nel momento del bisogno, di aver consacrato se stesso a un'illusione.
Tuttavia, fra le mie molte e diverse letture, c'era forse stato qualcosa che ricordava l'orrore in cui eravamo precipitati. Non ricordavo di preciso il testo, ma ne ricordavo l'autore, e ricordavo come nel cosmo di cui egli parlava ci fosse un'entità suprema, un sovrano immondo e innominabile che, cieco e folle, incuteva timore in tutto l'esistente. L'esistenza degli esseri di tenebra sembrava aver dato improvviso credito e privilegio di veridicità a quelle che, fino ad allora, mi erano parse semplici storie e novelle dell'orrore.
Superata l'infanzia, non ero mai stato timoroso di entità e dei: uomo fra gli umani, umanista fra gli uomini, non consideravo la blasfemia una colpa, non più di quanto considerassi un peccato l'insulto a una qualsivoglia opera dell'ingegno umano. Per quanto le mie esperienze recenti mi avessero costretto ad ammettere la veridicità di almeno una di quelle favole nere, pure non sarebbe stato certo il rispetto per una divinità oscura a fermarmi: non ne temevo l'ira, non temevo di pronunciare il Suo nome invano, ma contavo sul fatto che esso fosse in grado di incutere timore alle entità che, in qualche modo, al Suo potere doveva l'esistenza loro e del proprio genitore.
Ero nella veranda del piano superiore di casa mia, a scrutare la strada illuminata appena da un lampione semifulminato, quando questa epifania mi colse, la rivelazione che forse esisteva un modo per tenere a bada le creature. D'improvviso seppi cosa potevo fare per combattere gli esseri d'ombra, e come lo potevo fare.
Fissando uno degli esseri, mi sporsi dal balcone; congiunsi le mani e poi le spalancai a formare la figura di un quadrato, prigione di quattro mura, le portai davanti al volto e, con voce tremante, sussurrai il nome del dio-che-non-è-un-dio attraverso il segno che stavo tracciando; il mio respiro divenne luce, un lampo abbagliante che scaturì dalle mani e andò a investire la creatura, sciogliendo la sua nera corazza e liberando il mondo dalla sua inquietante sembianza.
Il mio gesto folle e disperato aveva avuto successo, il nome del sovrano, del demone-dio muto, era stato sufficiente per colpire con l'anatema ultimo le progenie dell'ombra oscura e ingannatrice.
Ero euforico: ripetei lo stesso assurdo gesto e l'improbabile rituale in direzione di ogni altra entità che riuscissi a scorgere; sempre dal quadrato delle mie mani balenava un rapido lampo, sempre in quella luce accecante le ombre scomparivano per non mostrarsi mai più. In poco tempo, tutto il circostante fu libero da quelle creature e il cielo sembrò finalmente tornare a brillare diurno come non faceva più da non sapevo quanto tempo.
Non avevo ancora parlato a nessuno della mia scoperta, e fu con orgoglio e folle gioia che entrai dentro casa per informare i miei familiari del mio successo, per dire loro che l'assedio era spezzato, che la battaglia era vinta e che saremo stati finalmente in grado di difenderci, riconquistando agli esseri umani la città strappata dalle grinfie delle tenebre.
Lo stupore fu grande, così come lo scetticismo iniziale, ma ancor più grande fu la contentezza nel sapersi finalmente liberi. Ricordo che festeggiammo, ma non ricordo come; forse con uno di quei banchetti per cui la nostra città era giustamente famosa, quelle pantagrueliche tavolate a cui tante volte si era seduto, ospite d'onore, l'essere da cui la nostra disperazione aveva avuto origine.
Proprio per via di questa gioia, immane e festosa, il risveglio nell'incubo fu ancora più traumatico. I miei gesti avevano forse richiamato la luce e scosso le ombre, ma non erano stati capaci di annullare il nucleo di materia a cui si aggrappavano per infestare il nostro mondo.
La luce le aveva spaventate, ma ancora una volta le oscure creature risposero al richiamo del loro progenitore, e presero forma di incubo portando nuovamente le tenebre. Ancora una volta, alla pallida luce dei lampioni potevamo scorgere le loro sagome, ed essi erano ora dei giganti, ombre umanoidi di dimensioni inumane racchiuse nel nero brillante di un'armatura oscura.
Non sapevo, e non volevo sapere, se più entità si fossero coagulate in quei nuovi esseri, o se invece esse fossero cresciute nutrendosi degli euforici illusi usciti allo scoperto ai quali la mia apparente vittoria aveva indotto una vana speranza.
Ora le creature ci guardavano negli occhi, scrutavano le finestre delle nostre case con volti ciechi e beffardi, superavano con le spalle quelle balconate da cui ci eravamo sentiti sicuri a osservarle non visti. Ci barricammo nuovamente, e ci sentivamo sicuri, ma per quanto?
In maniera inattesa, uno degli esseri fece infine il passo successivo, e mostrò che non più era vincolato alle lunghe ombre sottili del terreno: con gesti lenti ma inarrestabili l'entità si arrampicò sul nostro balcone, il suo corpo nuovamente tornato a dimensioni umane, e con un incedere cupo si diresse verso una porta. Feci appena in tempo a serrarla a chiave che l'ombra della sua mano inconsistente era lì, ad armeggiare sulla fragile maniglia.
Ormai il gesto ritualistico di prima sarebbe stato inutile, ne ero certo.
Ero stato sconfitto, le mie risposte folli vane quanto le preghiere dei pochi tenaci credenti che ancora riponevano fede in una conclamata menzogna. Non c'era più spazio per l'inquietudine: la disperazione più completa mi attanagliava con tutta se stessa.
Era finita; io - e tutto il mondo con me - ero finito.
La salvezza giunse, alla fine, quasi posticcia e inattesa, imprevedibile. Non la fede, non la luce, non gli scongiuri poterono dissolvere definitivamente le creature, ma il più apparentemente innaturale dei fenomeni naturali: la radioattività.
C'era, nella città, una vecchia centrale nucleare, relitto di un'era energetica passata, fonte di rischi e preoccupazioni che solo il nuovo orrore era stato capace di farci dimenticare. La radiazione è onda e particella, come la luce; ma, a differenza della luce scaturita dal nome impronunciabile e dai miei gesti, le radiazioni dei materiali impropriamente accumulati presso la centrale si rivelarono capaci di sciogliere definitivamente l'esoscheletro degli esseri oscuri e di farne svanire le carni d'ombra.
Scorie radioattive in mano, quanti si erano in precedenza asserragliati nella centrale riconquistarono la città strada per strada, quartiere per quartiere. Assieme alla sua prole, scomparve sotto le onde radioattive anche l'enigmatico essere dal quale quello strano incubo aveva avuto origine.
Non ero stato io a salvare la città, anche se forse - mi dicevo - il mio impegno aveva suggerito ad altri la via da seguire.
Drammatizzazione e scrittura elaborata e citazionistica sì, questo è stato il mio sogno della scorsa notte. L'ennesimo sogno inquietante, ma il primo realmente orrorifico che ho avuto da diverso tempo a questa parte. Le reminiscenze lovecraftiane direi che sono palesi, motivo per cui ho cercato in alcuni tratti di scimmiottare proprio la prosa del Solitario di Providence, ma il tocco comico del flash con le mani per dissolvere i mostri è un chiaro riferimento all'altra ispirazione del sogno, qualcosa di dannatamente giallo, televisivo e pop.
Se la commedia è quel genere letterario in cui la situazione, inizialmente critica e disperata, va in direzione di un ribaltamento e di una felice risoluzione, allora suppongo che il mio possa essere definito un sogno comico.
Al di là di tutto, potrebbe offrire un'ottima ispirazione per diverse avventure con diversi giochi di ruolo.
O, se non altro, potrebbe essere una buona lettura per una pallosissima domenica pomeriggio di fine agosto.
Per fortuna, la notte mi ha portato un inquietante consiglio: un incubo molto fastidioso e disturbante, una potenziale tragedia che poi si risolve in farsa, se non altro la testimonianza di quanto un sogno possa essere angosciante e rivoltarsi in commedia.
E no, prima che ve lo chiediate proprio ieri non ho fatto baldoria in alcun modo, non c'è nessuna inesistente sbornia alcolica a cui imputare il sogno, frutto unicamente di quegli strani passaggi mentali che ci prendono di tanto in tanto e producono novità interessanti collegando frammenti di ricordi e di idee in un
Incubo di una notte di fine estate.
(immagine totalmente a caso)
E che personaggio che era! A tutt'oggi penso che nessuno sappia da dove avesse avuto origine, per quanto il solo pensiero che possano esisterne o esserne esistiti altri come lui è abbastanza per farmi accapponare la pelle. Era venuto alla civiltà abbandonando una zona boschiva, forse luogo di indicibili esperimenti o sede di antiche civiltà, dopo che qualcosa lo aveva risvegliato dal suo sonno millenario, ultimo della sua specie; o, quantomeno, questo era quello che lui sosteneva. Non lo si poteva definire umano, né assomigliava a qualsivoglia altra creatura della cui esistenza l'uomo avesse mai avuto sentore; impacciato e strabordante di obesità, più ombra che carne, si era dimostrato subito un abile conversatore, rapido nel padroneggiare la nostra lingua e capace di accattivarsi le simpatie di tutti. Quasi di tutti.
Qualcosa, in lui, non mi convinceva; non era il solito personaggio del momento, l'atteso fenomeno dell'estate, il cantante destinato a sparire nell'oblio dei suoi epigoni, la moda passeggera da mettere nello scatolone del dimenticatoio fino alla prossima mania del vintage. No, ero sicuro che ci fosse qualcosa di inquietante nei suoi modi affabili, che la sua melensa cordialità nascondesse in realtà un ingegno molto più sinistro. Egli, che aveva sempre fame, veniva invitato a tutti i più esclusivi banchetti che si tenevano nella città, dove la crema della società si deliziava del modo in cui, fra una osservazione sagace e un forbito complimento, questa reliquia vivente divorava le più elaborate pietanze come se fossero listelli di patatine fritte nell'olio stantio di un qualche fast food.
Mi interessai a lui perché, d'improvviso, la sua fame insaziabile iniziò a generare dei frutti: dalla materia organica che fagocitava avevano avuto origine uno stuolo di esseri antropomorfi, come lui più ombra che carne, quasi sagome o sacche di oscurità tenuta in piedi da un'esoscheletro di nera notte. Da pochi che erano, gli esseri divennero sempre di più, una visione comune nelle sere cittadine, quando già uscivano dai loro nascondigli diurni e ancora la pallida luce del tramonto permetteva di scorgerli.
Come il loro progenitore, anche questi esseri erano famelici e insaziabili; ma, a differenza di ciò che li aveva generati, non erano attratti da pietanze raffinate quanto dalla carne, tiepida di sangue, di tutto ciò che in città respirava e viveva. Le prime sparizioni passarono inosservate: senzatetto, immigrati e altri "invisibili" a cui nessuno aveva mai prestato reale attenzione. Forse, se fossimo intervenuti allora sarebbe ancora stato possibile evitare le peggiori conseguenze; come se lo sterminio discreto degli ultimi non fosse già una terribile, disumana conseguenza.
La ferocia delle progenie esplose apertamente quando ogni maschera di benevolenza scomparve dal volto grottesco e indefinibile dell'entità che le aveva messe al mondo. Ben presto le strade furono affollate dalle loro sagome mute, i pochi che ancora si venturavano fuori dalle abitazioni facile preda di quelle ombre nere che li fagocitavano e divoravano, senza lasciare un solo resto dei miserabili e sfortunati pasti. La notte sembrava non avere mai fine, e forse il giorno era ormai un ricordo lontano di tempi migliori, di quando la luce non era più l'ambito sprazzo di un lampione malfunzionante ma un ambito dono che noi sciocchi davamo banalmente per scontato. Vivevamo barricati ai piani superiori delle nostre case, le porte sprangate e gli occhi vigili a indagare dalle finestre, come mesmerizzati dall'incomprensibile schema delle ombre che camminavano lente fuori dai nostri cortili, una minaccia muta e costante.
Qualche temerario osava uscire nei balconi, per vigilare meglio e altrettanto inutilmente sulle onnipresenti sagome; io ero fra questi, sprezzante di un pericolo che non correvo, troppo timoroso per affrontare realmente le creature della notte.
Nel tempo libero mi ero sempre interessato di esoterismi e mitologie varie, sia reali che fittizie, e dei vari sogni e deliri nei quali gli uomini avevano nel corso del tempo riposto la loro fede e speranza. Il soprannaturale, per me, era finito per diventare un banale luogo della mente, un insieme di cognizioni e nozionismo inutile al cui studio mi dedicavo per meglio comprendere l'uomo, l'animale che quelle favole aveva elaborato; non avevo mai escluso la possibilità che ci fosse in almeno alcune di quelle leggende o visioni un che di reale, ma semplicemente avevo sempre ritenuto e ritenevo ancora che, nel momento in cui si fosse palesato come reale, il soprannaturale avrebbe smesso di essere tale e sarebbe entrato a buon diritto fra i fenomeni naturali, percettibili e studiabili del nostro mondo.
Eppure, perfino uno scettico disilluso come me era costretto a riconoscere l'innaturalità di quegli esseri di tenebra che ci tenevano prigionieri, invisibili e famelici carcerieri d'ombra. Le armi avevano fallito, poiché non esiste lama per quanto affilata, proiettile per quanto rovente, che possa fendere l'oscurità e impedirle di riformarsi nuovamente. La luce del sole ci aveva protetto, ma ora la tenebra era la sola sovrana del nostro mondo.
Posto davanti a un fenomeno di tale portata, mi trovai come tutti costretto a rivedere quelle posizioni che davo per assodate: non un diavolo ci aveva condannato con le sue illusioni tentatrici, non un dio era intervenuto per salvare gli eletti e i devoti, non una voce aveva risposto a suppliche e preghiere, non un patrono aveva accettato le offerte dei disperati. I teologi e i sacerdoti giacevano, muti, in preda allo sconforto, tacevano per non dar voce alla disperazione di chi scopre, nel momento del bisogno, di aver consacrato se stesso a un'illusione.
Tuttavia, fra le mie molte e diverse letture, c'era forse stato qualcosa che ricordava l'orrore in cui eravamo precipitati. Non ricordavo di preciso il testo, ma ne ricordavo l'autore, e ricordavo come nel cosmo di cui egli parlava ci fosse un'entità suprema, un sovrano immondo e innominabile che, cieco e folle, incuteva timore in tutto l'esistente. L'esistenza degli esseri di tenebra sembrava aver dato improvviso credito e privilegio di veridicità a quelle che, fino ad allora, mi erano parse semplici storie e novelle dell'orrore.
Superata l'infanzia, non ero mai stato timoroso di entità e dei: uomo fra gli umani, umanista fra gli uomini, non consideravo la blasfemia una colpa, non più di quanto considerassi un peccato l'insulto a una qualsivoglia opera dell'ingegno umano. Per quanto le mie esperienze recenti mi avessero costretto ad ammettere la veridicità di almeno una di quelle favole nere, pure non sarebbe stato certo il rispetto per una divinità oscura a fermarmi: non ne temevo l'ira, non temevo di pronunciare il Suo nome invano, ma contavo sul fatto che esso fosse in grado di incutere timore alle entità che, in qualche modo, al Suo potere doveva l'esistenza loro e del proprio genitore.
Ero nella veranda del piano superiore di casa mia, a scrutare la strada illuminata appena da un lampione semifulminato, quando questa epifania mi colse, la rivelazione che forse esisteva un modo per tenere a bada le creature. D'improvviso seppi cosa potevo fare per combattere gli esseri d'ombra, e come lo potevo fare.
Fissando uno degli esseri, mi sporsi dal balcone; congiunsi le mani e poi le spalancai a formare la figura di un quadrato, prigione di quattro mura, le portai davanti al volto e, con voce tremante, sussurrai il nome del dio-che-non-è-un-dio attraverso il segno che stavo tracciando; il mio respiro divenne luce, un lampo abbagliante che scaturì dalle mani e andò a investire la creatura, sciogliendo la sua nera corazza e liberando il mondo dalla sua inquietante sembianza.
Il mio gesto folle e disperato aveva avuto successo, il nome del sovrano, del demone-dio muto, era stato sufficiente per colpire con l'anatema ultimo le progenie dell'ombra oscura e ingannatrice.
Ero euforico: ripetei lo stesso assurdo gesto e l'improbabile rituale in direzione di ogni altra entità che riuscissi a scorgere; sempre dal quadrato delle mie mani balenava un rapido lampo, sempre in quella luce accecante le ombre scomparivano per non mostrarsi mai più. In poco tempo, tutto il circostante fu libero da quelle creature e il cielo sembrò finalmente tornare a brillare diurno come non faceva più da non sapevo quanto tempo.
Non avevo ancora parlato a nessuno della mia scoperta, e fu con orgoglio e folle gioia che entrai dentro casa per informare i miei familiari del mio successo, per dire loro che l'assedio era spezzato, che la battaglia era vinta e che saremo stati finalmente in grado di difenderci, riconquistando agli esseri umani la città strappata dalle grinfie delle tenebre.
Lo stupore fu grande, così come lo scetticismo iniziale, ma ancor più grande fu la contentezza nel sapersi finalmente liberi. Ricordo che festeggiammo, ma non ricordo come; forse con uno di quei banchetti per cui la nostra città era giustamente famosa, quelle pantagrueliche tavolate a cui tante volte si era seduto, ospite d'onore, l'essere da cui la nostra disperazione aveva avuto origine.
Proprio per via di questa gioia, immane e festosa, il risveglio nell'incubo fu ancora più traumatico. I miei gesti avevano forse richiamato la luce e scosso le ombre, ma non erano stati capaci di annullare il nucleo di materia a cui si aggrappavano per infestare il nostro mondo.
La luce le aveva spaventate, ma ancora una volta le oscure creature risposero al richiamo del loro progenitore, e presero forma di incubo portando nuovamente le tenebre. Ancora una volta, alla pallida luce dei lampioni potevamo scorgere le loro sagome, ed essi erano ora dei giganti, ombre umanoidi di dimensioni inumane racchiuse nel nero brillante di un'armatura oscura.
Non sapevo, e non volevo sapere, se più entità si fossero coagulate in quei nuovi esseri, o se invece esse fossero cresciute nutrendosi degli euforici illusi usciti allo scoperto ai quali la mia apparente vittoria aveva indotto una vana speranza.
Ora le creature ci guardavano negli occhi, scrutavano le finestre delle nostre case con volti ciechi e beffardi, superavano con le spalle quelle balconate da cui ci eravamo sentiti sicuri a osservarle non visti. Ci barricammo nuovamente, e ci sentivamo sicuri, ma per quanto?
In maniera inattesa, uno degli esseri fece infine il passo successivo, e mostrò che non più era vincolato alle lunghe ombre sottili del terreno: con gesti lenti ma inarrestabili l'entità si arrampicò sul nostro balcone, il suo corpo nuovamente tornato a dimensioni umane, e con un incedere cupo si diresse verso una porta. Feci appena in tempo a serrarla a chiave che l'ombra della sua mano inconsistente era lì, ad armeggiare sulla fragile maniglia.
Ormai il gesto ritualistico di prima sarebbe stato inutile, ne ero certo.
Ero stato sconfitto, le mie risposte folli vane quanto le preghiere dei pochi tenaci credenti che ancora riponevano fede in una conclamata menzogna. Non c'era più spazio per l'inquietudine: la disperazione più completa mi attanagliava con tutta se stessa.
Era finita; io - e tutto il mondo con me - ero finito.
La salvezza giunse, alla fine, quasi posticcia e inattesa, imprevedibile. Non la fede, non la luce, non gli scongiuri poterono dissolvere definitivamente le creature, ma il più apparentemente innaturale dei fenomeni naturali: la radioattività.
C'era, nella città, una vecchia centrale nucleare, relitto di un'era energetica passata, fonte di rischi e preoccupazioni che solo il nuovo orrore era stato capace di farci dimenticare. La radiazione è onda e particella, come la luce; ma, a differenza della luce scaturita dal nome impronunciabile e dai miei gesti, le radiazioni dei materiali impropriamente accumulati presso la centrale si rivelarono capaci di sciogliere definitivamente l'esoscheletro degli esseri oscuri e di farne svanire le carni d'ombra.
Scorie radioattive in mano, quanti si erano in precedenza asserragliati nella centrale riconquistarono la città strada per strada, quartiere per quartiere. Assieme alla sua prole, scomparve sotto le onde radioattive anche l'enigmatico essere dal quale quello strano incubo aveva avuto origine.
Non ero stato io a salvare la città, anche se forse - mi dicevo - il mio impegno aveva suggerito ad altri la via da seguire.
Drammatizzazione e scrittura elaborata e citazionistica sì, questo è stato il mio sogno della scorsa notte. L'ennesimo sogno inquietante, ma il primo realmente orrorifico che ho avuto da diverso tempo a questa parte. Le reminiscenze lovecraftiane direi che sono palesi, motivo per cui ho cercato in alcuni tratti di scimmiottare proprio la prosa del Solitario di Providence, ma il tocco comico del flash con le mani per dissolvere i mostri è un chiaro riferimento all'altra ispirazione del sogno, qualcosa di dannatamente giallo, televisivo e pop.
Se la commedia è quel genere letterario in cui la situazione, inizialmente critica e disperata, va in direzione di un ribaltamento e di una felice risoluzione, allora suppongo che il mio possa essere definito un sogno comico.
Al di là di tutto, potrebbe offrire un'ottima ispirazione per diverse avventure con diversi giochi di ruolo.
O, se non altro, potrebbe essere una buona lettura per una pallosissima domenica pomeriggio di fine agosto.
venerdì 25 agosto 2017
Pittura che prende forma sulla Custode dei Segreti di Slaanesh (Keeper of Secrets) e sul Principe Demone di Khorne (Khorne Daemon Prince)
In tutta sincerità, non posso lamentarmi di quello che ho realizzato quest'anno dal punto di vista modellistico: ho terminato di dipingere, e in alcuni casi anche assemblato o addirittura modificato ex novo, più di 60 miniature diverse; molte le ho fatte in serie, è vero, ma se avessi mantenuto una media di trenta a quadrimestre, avendo iniziato a darmi seriamente al modellismo da sette anni e un quadrimestre, avrei 660 miniature (gioco demoni del Caos per un motivo, no? E ho iniziato con Slaanesh, guarda tu i cas(e)i della vita).
Pur con l'agosto che mi rema contro e la catartica esperienza del condizionatore sparato quando dipingo, pur con il pollice indolenzito che mi impedisce di dipingere quanto vorrei, pur nei ritagli di tempo, la pittura va avanti anche sugli ultimi due pezzi grossi che rimangono da completare per la mia armata di demoni, due pezzi che finalmente hanno preso qualcosa di più che lo schema di colore, due pezzi che voglio completare assolutamente prima della fine dell'estate.
La "strana" coppia di cui in foto ha trovato il suo schema di colore definitivo, per quanto lui sia a uno stadio pittorico più avanzato di lei/lui/l?i.
La pelle è terminata, mentre il metallo va rifinito; sarà acciaio con inserti in ottone; il pelo e i capelli saranno color castano, mentre invece per il gonnellino non ho ancora deciso, forse riprenderà il colore delle fiamme - verdi o blu?
La carne-demoniaca-standard, ovviamente, verrà lumeggiata e forse virata al rosso con un glaze. Ma anche così, in sfumato, sembra quasi a posto.
Per la Custode sono molto indietro, anche se come potete vedere ho aggiunto qualche ulteriore dettaglio e stabilito finalmente lo schema di colore: pelle chiara, capelli neri con riflessi verdi, maschera bianca, lingerie viola e gioielli in argento e oro.
Sono più volte intervenuto sui capelli perché c'erano aree in cui sentivo di dover aggiungere qualcosa, come la parte dietro la mano.
La silhouette del pezzo è, secondo me, il suo punto forte.
La povera vittima incatenata è a uno stadio pittorico più avanzato, esatto.
Peraltro, anche la simbologia allusiva non è male: il demone maggiore di Slaanesh sembra una donna statuaria, ma due aguzze punte letali si protendono in avanti dalla schiena, e gli spietati tentacoli trafiggeranno il nemico mesmerizzato prima che questi possa anche solo sfiorare le morbide carni.
Indovinate di che colore è la lavatura con cui ho ombreggiato i capelli?
Ah, sì, ovviamente i due ciuffi e le corna e il viso sono pesantemente da finire.
Questa sporca truppaglia verrà finita dopo i due demoni, se pure la finirò e non rivenderò certe cose (se inizio a collezionare anche Caos mortale e non solo demoni è finita, per le mie finanze quantomeno).
PS: sapete quanto è difficile usare la tastiera senza il pollice della mano sinistra?
Molto, psicologicamente.
Pur con l'agosto che mi rema contro e la catartica esperienza del condizionatore sparato quando dipingo, pur con il pollice indolenzito che mi impedisce di dipingere quanto vorrei, pur nei ritagli di tempo, la pittura va avanti anche sugli ultimi due pezzi grossi che rimangono da completare per la mia armata di demoni, due pezzi che finalmente hanno preso qualcosa di più che lo schema di colore, due pezzi che voglio completare assolutamente prima della fine dell'estate.
La "strana" coppia di cui in foto ha trovato il suo schema di colore definitivo, per quanto lui sia a uno stadio pittorico più avanzato di lei/lui/l?i.
La pelle è terminata, mentre il metallo va rifinito; sarà acciaio con inserti in ottone; il pelo e i capelli saranno color castano, mentre invece per il gonnellino non ho ancora deciso, forse riprenderà il colore delle fiamme - verdi o blu?
La carne-demoniaca-standard, ovviamente, verrà lumeggiata e forse virata al rosso con un glaze. Ma anche così, in sfumato, sembra quasi a posto.
Per la Custode sono molto indietro, anche se come potete vedere ho aggiunto qualche ulteriore dettaglio e stabilito finalmente lo schema di colore: pelle chiara, capelli neri con riflessi verdi, maschera bianca, lingerie viola e gioielli in argento e oro.
Sono più volte intervenuto sui capelli perché c'erano aree in cui sentivo di dover aggiungere qualcosa, come la parte dietro la mano.
La silhouette del pezzo è, secondo me, il suo punto forte.
La povera vittima incatenata è a uno stadio pittorico più avanzato, esatto.
Peraltro, anche la simbologia allusiva non è male: il demone maggiore di Slaanesh sembra una donna statuaria, ma due aguzze punte letali si protendono in avanti dalla schiena, e gli spietati tentacoli trafiggeranno il nemico mesmerizzato prima che questi possa anche solo sfiorare le morbide carni.
Indovinate di che colore è la lavatura con cui ho ombreggiato i capelli?
Ah, sì, ovviamente i due ciuffi e le corna e il viso sono pesantemente da finire.
PS: sapete quanto è difficile usare la tastiera senza il pollice della mano sinistra?
Molto, psicologicamente.
martedì 22 agosto 2017
Scrivendo ad occhi chiusi
Il malessere è relativo.
E' relativo al punto di vista o, più correttamente, di sofferenza: "il dolore degli altri è dolore a metà", dopotutto, e anche l'empatia ha un limite, quand'anche è presente.
E' relativo alla capacità di sopportazione di colui che soffre: quel che per un cucciolo di predatore è un innocuo buffetto, per un bambino umano è una cocente punizione, scriveva Kipling.
Il malessere è relativo alla percezione, mai assoluto, non c'è sofferenza a cui alcuni non riderebbero in faccia, sprezzanti, o per cui altri non desidererebbero una qualsiasi via di uscita, anche estrema.
Soprattutto, però, il malessere è relativo allo iato, al contrasto, allo stridore che si crea fra aspettative e realtà percepita: anche il più assiduo alcolista tossirà quando, aspettandosi un bicchiere di banalissima acqua, si ritroverà a tracannare invece dell'acqua di fuoco.
Maggiore è questo iato, maggiore è il malessere, peggiore è la sofferenza che esso provoca.
E in mezzo a una voragine di iato, ci siamo noi che ci affanniamo, tesi, come squartati, nel cercare di ricucire lo squarcio, evitando l'inevitabile slittamento fra le nostre aspettative e la realtà empirica che la vita ci sbatte in faccia ad ogni respiro.
"Il dolore del crescere, benvenuti nel mondo degli adulti"; la solita frase fatta, sentita mille volte; molto spesso da parte di persone che, con una preparazione inferiore a quella del soggetto cui la rivolgono, hanno ottenuto un lavoro molto più appagante di quello a cui il "sofferente" potrà mai aspirare. Ma si parla di sofferenze, non di modelli di sviluppo sul breve periodo o di ipoteche poste sui propri figli per mantenerli con la propria pensione.
Il problema, appunto, è che la sofferenza dipende dalla capacità di sopportazione del singolo. E, per tante cose, la mia è agli sgoccioli. Da tempo, in verità, lo è da tempo; a volte va meglio, a volte va peggio, a volte va molto peggio.
Apparentemente, la situazione è rosea come le dita di un'aurora omerica: sono un laureato di secondo livello, con triennale e magistrale nel settore della mia passione, finalmente si sta sbloccando la situazione lavorativa per il settore dell'insegnamento e già ora, come docente privato, vengo apprezzato dai ragazzi e dai loro genitori. Le mie passioni ludiche hanno raggiunto il punto di autoalimentarsi, con i proventi della DM Guild riesco a prendermi i manuali di GdR, le miniature o i videogiochi che mi interessano; sto riuscendo a completare miniature che sono rimaste non dipinte per anni e anni. Ho degli amici coi quali vedersi e chiacchierare davanti a una birra o davanti a un caffè, o anche davanti a una pizza o a un cocktail se è per questo. Ho predisposto tutto affinché la mia carriera lavorativa mi porti in una grande città, un contesto che preferisco al quasi-bucolico isolamento del paese vicino al capoluogo isolano, satellite attorno al centro di un decentramento minore.
Eppure, non riesco a trovare soddisfazione: guardo ciò che ero e non sono più, ciò che vorrei essere e non riesco a raggiungere. Un tempo pesavo dieci chili di meno, riuscivo a fare venti piegamenti sulle braccia di fila sollevando le mani da terra a ogni ripetuta, reggevo mille salti con la corda di fila e qualche minuto di contrazione totale; ora non conto neanche le paia di pantaloni in cui non entro più. Vorrei essere in grado di scrivere i miei articoli di gioco in un inglese migliore, di dipingere in maniera migliore, di scolpire in maniera migliore. Vorrei essere capace di lasciarmi alle spalle le esperienze negative, di uscire dal vicolo cieco del malessere. Vorrei, alle porte dei trent'anni, avere un lavoro che mi renda autonomo e indipendente, capace di vivere dove e come voglio senza dover fare affidamento su nessuno.
Ho visto persone contente di sé e dei propri fallimenti ritratti come trionfi, sono forse troppo cinico e disilluso per rimodellare i miei ideali su di me stesso.
Pretendo troppo? Sì, a quanto pare.
E, da queste mie pretese nei confronti di me stesso, nasce il malessere che mi consuma e che mi paralizza.
Dall'esterno, le soluzioni sono lì a portata di mano: basta tenderla e ci si arriva. Dall'esterno, peccato che io mi muova dall'interno di me stesso.
E' difficile parlarne, è difficile scriverne. Sono riuscito a tirare fuori quello che è forse il nodo del problema, a renderlo comunicabile e percettibile, spero, anche per chi sta all'infuori di me, solo scrivendo ad occhi chiusi.
Una frase buttata su di un foglio, sgraziata e difficile da comprendere per chi non l'ha scritta, una frase con note forse incomprensibili che si intrecciano nel problema anziché districarlo.
Non
perché, se è completo, portato a termine, è saṃskṛto, e che non lo sia implica che non lo sia io
paralisi Completo Paralisi, speranze di desideri disattesi
Quello
Che
Desidero
Perché
Temo
mi deluda deludere me stesso, il massimo timore
Una gioia fittizia, unico svaaago Uno svago fittizio, unica gioia
E' relativo al punto di vista o, più correttamente, di sofferenza: "il dolore degli altri è dolore a metà", dopotutto, e anche l'empatia ha un limite, quand'anche è presente.
E' relativo alla capacità di sopportazione di colui che soffre: quel che per un cucciolo di predatore è un innocuo buffetto, per un bambino umano è una cocente punizione, scriveva Kipling.
Il malessere è relativo alla percezione, mai assoluto, non c'è sofferenza a cui alcuni non riderebbero in faccia, sprezzanti, o per cui altri non desidererebbero una qualsiasi via di uscita, anche estrema.
Soprattutto, però, il malessere è relativo allo iato, al contrasto, allo stridore che si crea fra aspettative e realtà percepita: anche il più assiduo alcolista tossirà quando, aspettandosi un bicchiere di banalissima acqua, si ritroverà a tracannare invece dell'acqua di fuoco.
Maggiore è questo iato, maggiore è il malessere, peggiore è la sofferenza che esso provoca.
E in mezzo a una voragine di iato, ci siamo noi che ci affanniamo, tesi, come squartati, nel cercare di ricucire lo squarcio, evitando l'inevitabile slittamento fra le nostre aspettative e la realtà empirica che la vita ci sbatte in faccia ad ogni respiro.
"Il dolore del crescere, benvenuti nel mondo degli adulti"; la solita frase fatta, sentita mille volte; molto spesso da parte di persone che, con una preparazione inferiore a quella del soggetto cui la rivolgono, hanno ottenuto un lavoro molto più appagante di quello a cui il "sofferente" potrà mai aspirare. Ma si parla di sofferenze, non di modelli di sviluppo sul breve periodo o di ipoteche poste sui propri figli per mantenerli con la propria pensione.
Il problema, appunto, è che la sofferenza dipende dalla capacità di sopportazione del singolo. E, per tante cose, la mia è agli sgoccioli. Da tempo, in verità, lo è da tempo; a volte va meglio, a volte va peggio, a volte va molto peggio.
Apparentemente, la situazione è rosea come le dita di un'aurora omerica: sono un laureato di secondo livello, con triennale e magistrale nel settore della mia passione, finalmente si sta sbloccando la situazione lavorativa per il settore dell'insegnamento e già ora, come docente privato, vengo apprezzato dai ragazzi e dai loro genitori. Le mie passioni ludiche hanno raggiunto il punto di autoalimentarsi, con i proventi della DM Guild riesco a prendermi i manuali di GdR, le miniature o i videogiochi che mi interessano; sto riuscendo a completare miniature che sono rimaste non dipinte per anni e anni. Ho degli amici coi quali vedersi e chiacchierare davanti a una birra o davanti a un caffè, o anche davanti a una pizza o a un cocktail se è per questo. Ho predisposto tutto affinché la mia carriera lavorativa mi porti in una grande città, un contesto che preferisco al quasi-bucolico isolamento del paese vicino al capoluogo isolano, satellite attorno al centro di un decentramento minore.
Eppure, non riesco a trovare soddisfazione: guardo ciò che ero e non sono più, ciò che vorrei essere e non riesco a raggiungere. Un tempo pesavo dieci chili di meno, riuscivo a fare venti piegamenti sulle braccia di fila sollevando le mani da terra a ogni ripetuta, reggevo mille salti con la corda di fila e qualche minuto di contrazione totale; ora non conto neanche le paia di pantaloni in cui non entro più. Vorrei essere in grado di scrivere i miei articoli di gioco in un inglese migliore, di dipingere in maniera migliore, di scolpire in maniera migliore. Vorrei essere capace di lasciarmi alle spalle le esperienze negative, di uscire dal vicolo cieco del malessere. Vorrei, alle porte dei trent'anni, avere un lavoro che mi renda autonomo e indipendente, capace di vivere dove e come voglio senza dover fare affidamento su nessuno.
Ho visto persone contente di sé e dei propri fallimenti ritratti come trionfi, sono forse troppo cinico e disilluso per rimodellare i miei ideali su di me stesso.
Pretendo troppo? Sì, a quanto pare.
E, da queste mie pretese nei confronti di me stesso, nasce il malessere che mi consuma e che mi paralizza.
Dall'esterno, le soluzioni sono lì a portata di mano: basta tenderla e ci si arriva. Dall'esterno, peccato che io mi muova dall'interno di me stesso.
E' difficile parlarne, è difficile scriverne. Sono riuscito a tirare fuori quello che è forse il nodo del problema, a renderlo comunicabile e percettibile, spero, anche per chi sta all'infuori di me, solo scrivendo ad occhi chiusi.
Una frase buttata su di un foglio, sgraziata e difficile da comprendere per chi non l'ha scritta, una frase con note forse incomprensibili che si intrecciano nel problema anziché districarlo.
Non
perché, se è completo, portato a termine, è saṃskṛto, e che non lo sia implica che non lo sia io
paralisi Completo Paralisi, speranze di desideri disattesi
Quello
Che
Desidero
Perché
Temo
mi deluda deludere me stesso, il massimo timore
Una gioia fittizia, unico svaaago Uno svago fittizio, unica gioia
sabato 19 agosto 2017
Decors for Dungeons
Dopo tanto tempo, ecco un piccolo contenuto di forse nessun rilievo per la DM Guild.
Decors for Dungeons, disponibile sotto la formula "pay what you want" (traduzione: se siete gentili lasciatemi qualcosa, ma ve lo cedo aggratis perché ho il cuore più grande dell'abisso di vuoto nel mio miserrimo portafogli), è una raccolta di vari tipi di elementi d'arredamento e di architettura che potete inserire in un qualsiasi dungeon per renderlo un posto più interessante.
Niente di troppo pretenzioso, ma qualcosa che spero possa risultare gradito e simpatico.
Vi lascio, come sempre, il LINK al prodotto in vendita sulla gilda.
Decors for Dungeons, disponibile sotto la formula "pay what you want" (traduzione: se siete gentili lasciatemi qualcosa, ma ve lo cedo aggratis perché ho il cuore più grande dell'abisso di vuoto nel mio miserrimo portafogli), è una raccolta di vari tipi di elementi d'arredamento e di architettura che potete inserire in un qualsiasi dungeon per renderlo un posto più interessante.
Niente di troppo pretenzioso, ma qualcosa che spero possa risultare gradito e simpatico.
Vi lascio, come sempre, il LINK al prodotto in vendita sulla gilda.
giovedì 3 agosto 2017
Il "tough boy", balrog Assetato di Sangue di Khorne dipinto e pronto all'uso (Bloodthirster of Khorne)
Eccoci, in "appena" tre anni: pezzo finito di dipingere e pronto per essere giocato senza vergogna. Dico "appena" perché ero convinto di averci messo molto più tempo, ma la cronologia non mente.
Per tanti, troppi mesi la miniatura è rimasta primerata, col solo fondo rosso, in attesa di essere terminata. Poi, finalmente, mi sono deciso e mi sono dato da fare, non prima di aver dato un'ultima sistemata all'ascia che era davvero troppo anonima.
E così finalmente è pronto il mio though boy di Khorne.
Eccolo che si avanza, su una basetta nuova, verso un gioco attuale con tre tipi di assetato di sangue dei quali lui può benissimo esserne due.
Disclaimer: se stai vedendo questa scena stai per essere khornizzato.
Frusta di rozza perfidia.
Ascia finemente demoniaca e incrostata di sangue e interiora.
Così come l'ala, eh!
Il "lato though boy" con il guanto, le bende attorno al braccio e, infine, le cicatrici di cui solo tre visibili.
Le fiamme, in origine, erano pensate per essere rosse. Ma questo blu fa un contrasto molto migliore, ci sta tanto e ci sta tutto. Prego notare il bracciale, uno scudo del Caos aggiunto come ultima scelta.
L'apertura alare è semplicemente enorme, non riuscivo a farlo stare in bacheca. La basetta è volutamente semplice, ma d'effetto - effetto SANGUE.
Simbolo di Khorne su un'ala...
... e cicatrici sull'altra.
Forse dovrò ritoccare un occhio. Forse. So che non lo farò mai. :/
"Teschi per il trono di teschi! Comprate qui i vostri teschi per il trono di teschi!"
Per tanti, troppi mesi la miniatura è rimasta primerata, col solo fondo rosso, in attesa di essere terminata. Poi, finalmente, mi sono deciso e mi sono dato da fare, non prima di aver dato un'ultima sistemata all'ascia che era davvero troppo anonima.
E così finalmente è pronto il mio though boy di Khorne.
Eccolo che si avanza, su una basetta nuova, verso un gioco attuale con tre tipi di assetato di sangue dei quali lui può benissimo esserne due.
Disclaimer: se stai vedendo questa scena stai per essere khornizzato.
Frusta di rozza perfidia.
Ascia finemente demoniaca e incrostata di sangue e interiora.
Così come l'ala, eh!
Il "lato though boy" con il guanto, le bende attorno al braccio e, infine, le cicatrici di cui solo tre visibili.
Le fiamme, in origine, erano pensate per essere rosse. Ma questo blu fa un contrasto molto migliore, ci sta tanto e ci sta tutto. Prego notare il bracciale, uno scudo del Caos aggiunto come ultima scelta.
L'apertura alare è semplicemente enorme, non riuscivo a farlo stare in bacheca. La basetta è volutamente semplice, ma d'effetto - effetto SANGUE.
Simbolo di Khorne su un'ala...
... e cicatrici sull'altra.
Forse dovrò ritoccare un occhio. Forse. So che non lo farò mai. :/
"Teschi per il trono di teschi! Comprate qui i vostri teschi per il trono di teschi!"
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