Da quant'era che non pubblicavo sul blog un pezzo di prosa che non fosse collegato a un qualche gioco di ruolo?
Da più di tre anni, a quanto pare. Un intervallo più che ingiustificabile, temo. Perciò spero che, alla luce di tale colpa, appaiano cosa da poco tutte le pecche di questa non troppo breve riflessione mezzo metaforica su un problema forse troppo comune.
Da più di tre anni, a quanto pare. Un intervallo più che ingiustificabile, temo. Perciò spero che, alla luce di tale colpa, appaiano cosa da poco tutte le pecche di questa non troppo breve riflessione mezzo metaforica su un problema forse troppo comune.
Conosco
questo effetto, conosco questa situazione – ci sono passato tante
volte, in effetti. Come tutti.
La
sapiente scienza economica, l'arte del consumare capitali per non
bruciare il profitto, ha trovato un nome per la situazione che vivo e
che noi tutti viviamo o abbiamo vissuto, più o meno inconsapevoli,
tante volte. È la trappola dei costi irrecuperabili, il baratro in
cui precipiti quando pur avendo puntato su un investimento
fallimentare continui a buttarvi denaro non potendo accettare di aver
sperperato il capitale iniziale. Trappola dei costi irrecuperabili
appunto, ché per quanto tu ci investa mai ti sarà possibile
trasformare in business remunerativo un tale fallimento; continuerai
anzi a dissipare le tue risorse, sprecandole per trasformare un buco
nero nel tuo personale e irrealizzabile Eldorado. Più tardi
accetterai la situazione in cui ti trovi, maggiori saranno le perdite
sofferte prima di uscire dalla trappola dove troppo a lungo hai
indugiato credendola un fertile bacio d'amante.
Un
fertile bacio d'amante, già.
Ovviamente,
l'essere consapevoli di questo rischio non deve essere, né di certo
è per gli economisti, un verghiano invito a non tentare l'intentato
crogiolandosi nell'ineluttabilità dell'immobilismo; è semmai un
monito a saper distinguere l'investimento su cui bisogna insistere da
quello che allo stato attuale delle cose è un puro e semplice
spreco. E qui si nasconde l'illusione, la trappola dentro la
trappola: perché è facile, dannatamente facile convincersi che i
tempi stiano maturando, che le cose stiano cambiando e che presto la
tendenza si invertirà, che basterà tener duro per ancora qualche
tempo in modo da poter finalmente arrivare a cogliere quei frutti
dolci e succosi che a lungo sono stati sognati, quei frutti sodi ora
acerbi che secondo disfattisti e malelingue non matureranno mai.
Ma
quanto, quanto a lungo l'illusione può confondere e ingannare la
logica? Verrà prima o poi il momento in cui anche il più
inarrendevole dei sognatori dovrà accettare l'irrealtà della
propria chimera – o no? O non la finirà piuttosto come la più
comica delle macchiette, quel vecchio tutto pelle e ossa con la barba
incolta e il cappello a tese decisamente troppo larghe, quel vecchio
minatore che in ogni western si ostina ancora a scavare nella propria
concessione certo di avvicinarsi ogni giorno di più alla proverbiale
vena d'oro?
C'è
qualcosa che affascina nella figura del vecchio scavaterra: la sua
tenacia, la sua fiducia nei frutti salvifici della fatica ostinata
sono indubbiamente esempi da seguire, nessuno vorrebbe gettare la
spugna e la piccozza a trenta centimetri dalla vena d'oro. Ma se non
vi fosse invece alcun tesoro da portare alla luce? L'ostinazione del
minatore diventerebbe allora risibile, ogni virtù positiva
trasfigurata nel suo essere latrice di fatica inutile e speranze mal
riposte. Il vero dramma del nostro vecchio è che lui non può mai
sapere come andrà a finire, se vi sia davvero dell'oro nel suo
terreno o se egli stia invece dando la caccia ai luccicanti riflessi
di un sogno irrealizzabile.
Lui,
come tutte le macchiette stereotipate, non cambierà mai: continuerà
a cavar roccia dalla terra, poiché quello è il suo unico ruolo
nell'economia del racconto. Ma noi? Quanto ci mettiamo noi ad
accorgerci che l'oro non si trova lì, che mai quei frutti
matureranno e mai potremo coglierli per suggerne il dolce nettare,
quanto ci metterò io ad accorgermene?
A
livello razionale, in realtà, lo so già da tempo; da tempo avrei
dovuto cogliere una pietra tombale dalla mia cava delle disillusioni
per mettervela sopra. E l'ho fatto in effetti, l'ho fatto diverse
volte. Ma non è mai morto ciò che soggiace in eterno nei nostri
sogni, e in particolari momenti si può scordare anche ciò che diamo
per assordato.
Perché
la speranza, in profondità, cova sempre; perché dopotutto quello a
cui aspiravamo ieri continua a essere una delle nostre aspirazioni
dell'oggi. Perché ci diciamo che magari la nostra vena d'oro è
proprio lì, stavolta le piogge e il tempo hanno eroso il terreno e
magari basterà una picconata, massimo due, per farla venire alla
luce; e anche se oggi non trovassimo niente, ogni colpo in più sarà
pur sempre un colpo in meno da dare per raggiungere finalmente quel
tesoro tanto agognato dal nostro cuore. Abbiamo faticato così tanto,
certo il da fare è ormai poca cosa rispetto a quanto l'ha preceduto;
abbiamo investito così tanto, certo i costi che dobbiamo affrontare
ora sono nulla rispetto al già speso, quei costi irrecuperabili che
verrebbero irrimediabilmente persi se ci arrendessimo proprio ora.
E
ci sforziamo di ignorare quel tarlo che rode il sogno, quel pensiero
disilluso che ci spinge brutalmente ad accettare una realtà
sgradevole: se tanto abbiamo già fatto, se tanto abbiamo già
faticato senza ottenere nulla è probabile che non ci sia proprio
niente da ottenere. I nostri sforzi fino ad ora sono stati vani,
poiché cercavamo l'oro dove non c'è che fango, perché aspettavamo
che maturassero i frutti d'una pianta sterile e rinsecchita. Non
troveremo nulla, non ci sarà nessun coronamento dei nostri sforzi:
il tempo e le energie impiegati sono stati sprecati, la nostra
tenacia risibile ostinazione d'un pazzo visionario.
È
stato tutto inutile, non potrò mai rivivere gli attimi dei giorni
che ho trascorso a cercare il nulla, non potrò mai decidere di
annullare quel che ho compiuto.
Ma
possiamo decidere di uscire dalla trappola, possiamo decidere di
accettare d'aver perso quel che è andato sprecato, possiamo decidere
di porre un sigillo definitivo a quel capitolo della nostra esistenza
– e andare oltre. Non è una resa, non si tratta di gettare la
spugna: si tratta di comprendere con umiltà che non sarà la nostra
ostinatezza da sola a rendere possibile l'impossibile, si tratta di
rinunciare alle illusioni per abbracciare nuovi sogni.
Per
abbracciare quei sogni che, un giorno, potranno restituire il nostro
abbraccio.
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