Per fortuna, la notte mi ha portato un inquietante consiglio: un incubo molto fastidioso e disturbante, una potenziale tragedia che poi si risolve in farsa, se non altro la testimonianza di quanto un sogno possa essere angosciante e rivoltarsi in commedia.
E no, prima che ve lo chiediate proprio ieri non ho fatto baldoria in alcun modo, non c'è nessuna inesistente sbornia alcolica a cui imputare il sogno, frutto unicamente di quegli strani passaggi mentali che ci prendono di tanto in tanto e producono novità interessanti collegando frammenti di ricordi e di idee in un
Incubo di una notte di fine estate.
(immagine totalmente a caso)
E che personaggio che era! A tutt'oggi penso che nessuno sappia da dove avesse avuto origine, per quanto il solo pensiero che possano esisterne o esserne esistiti altri come lui è abbastanza per farmi accapponare la pelle. Era venuto alla civiltà abbandonando una zona boschiva, forse luogo di indicibili esperimenti o sede di antiche civiltà, dopo che qualcosa lo aveva risvegliato dal suo sonno millenario, ultimo della sua specie; o, quantomeno, questo era quello che lui sosteneva. Non lo si poteva definire umano, né assomigliava a qualsivoglia altra creatura della cui esistenza l'uomo avesse mai avuto sentore; impacciato e strabordante di obesità, più ombra che carne, si era dimostrato subito un abile conversatore, rapido nel padroneggiare la nostra lingua e capace di accattivarsi le simpatie di tutti. Quasi di tutti.
Qualcosa, in lui, non mi convinceva; non era il solito personaggio del momento, l'atteso fenomeno dell'estate, il cantante destinato a sparire nell'oblio dei suoi epigoni, la moda passeggera da mettere nello scatolone del dimenticatoio fino alla prossima mania del vintage. No, ero sicuro che ci fosse qualcosa di inquietante nei suoi modi affabili, che la sua melensa cordialità nascondesse in realtà un ingegno molto più sinistro. Egli, che aveva sempre fame, veniva invitato a tutti i più esclusivi banchetti che si tenevano nella città, dove la crema della società si deliziava del modo in cui, fra una osservazione sagace e un forbito complimento, questa reliquia vivente divorava le più elaborate pietanze come se fossero listelli di patatine fritte nell'olio stantio di un qualche fast food.
Mi interessai a lui perché, d'improvviso, la sua fame insaziabile iniziò a generare dei frutti: dalla materia organica che fagocitava avevano avuto origine uno stuolo di esseri antropomorfi, come lui più ombra che carne, quasi sagome o sacche di oscurità tenuta in piedi da un'esoscheletro di nera notte. Da pochi che erano, gli esseri divennero sempre di più, una visione comune nelle sere cittadine, quando già uscivano dai loro nascondigli diurni e ancora la pallida luce del tramonto permetteva di scorgerli.
Come il loro progenitore, anche questi esseri erano famelici e insaziabili; ma, a differenza di ciò che li aveva generati, non erano attratti da pietanze raffinate quanto dalla carne, tiepida di sangue, di tutto ciò che in città respirava e viveva. Le prime sparizioni passarono inosservate: senzatetto, immigrati e altri "invisibili" a cui nessuno aveva mai prestato reale attenzione. Forse, se fossimo intervenuti allora sarebbe ancora stato possibile evitare le peggiori conseguenze; come se lo sterminio discreto degli ultimi non fosse già una terribile, disumana conseguenza.
La ferocia delle progenie esplose apertamente quando ogni maschera di benevolenza scomparve dal volto grottesco e indefinibile dell'entità che le aveva messe al mondo. Ben presto le strade furono affollate dalle loro sagome mute, i pochi che ancora si venturavano fuori dalle abitazioni facile preda di quelle ombre nere che li fagocitavano e divoravano, senza lasciare un solo resto dei miserabili e sfortunati pasti. La notte sembrava non avere mai fine, e forse il giorno era ormai un ricordo lontano di tempi migliori, di quando la luce non era più l'ambito sprazzo di un lampione malfunzionante ma un ambito dono che noi sciocchi davamo banalmente per scontato. Vivevamo barricati ai piani superiori delle nostre case, le porte sprangate e gli occhi vigili a indagare dalle finestre, come mesmerizzati dall'incomprensibile schema delle ombre che camminavano lente fuori dai nostri cortili, una minaccia muta e costante.
Qualche temerario osava uscire nei balconi, per vigilare meglio e altrettanto inutilmente sulle onnipresenti sagome; io ero fra questi, sprezzante di un pericolo che non correvo, troppo timoroso per affrontare realmente le creature della notte.
Nel tempo libero mi ero sempre interessato di esoterismi e mitologie varie, sia reali che fittizie, e dei vari sogni e deliri nei quali gli uomini avevano nel corso del tempo riposto la loro fede e speranza. Il soprannaturale, per me, era finito per diventare un banale luogo della mente, un insieme di cognizioni e nozionismo inutile al cui studio mi dedicavo per meglio comprendere l'uomo, l'animale che quelle favole aveva elaborato; non avevo mai escluso la possibilità che ci fosse in almeno alcune di quelle leggende o visioni un che di reale, ma semplicemente avevo sempre ritenuto e ritenevo ancora che, nel momento in cui si fosse palesato come reale, il soprannaturale avrebbe smesso di essere tale e sarebbe entrato a buon diritto fra i fenomeni naturali, percettibili e studiabili del nostro mondo.
Eppure, perfino uno scettico disilluso come me era costretto a riconoscere l'innaturalità di quegli esseri di tenebra che ci tenevano prigionieri, invisibili e famelici carcerieri d'ombra. Le armi avevano fallito, poiché non esiste lama per quanto affilata, proiettile per quanto rovente, che possa fendere l'oscurità e impedirle di riformarsi nuovamente. La luce del sole ci aveva protetto, ma ora la tenebra era la sola sovrana del nostro mondo.
Posto davanti a un fenomeno di tale portata, mi trovai come tutti costretto a rivedere quelle posizioni che davo per assodate: non un diavolo ci aveva condannato con le sue illusioni tentatrici, non un dio era intervenuto per salvare gli eletti e i devoti, non una voce aveva risposto a suppliche e preghiere, non un patrono aveva accettato le offerte dei disperati. I teologi e i sacerdoti giacevano, muti, in preda allo sconforto, tacevano per non dar voce alla disperazione di chi scopre, nel momento del bisogno, di aver consacrato se stesso a un'illusione.
Tuttavia, fra le mie molte e diverse letture, c'era forse stato qualcosa che ricordava l'orrore in cui eravamo precipitati. Non ricordavo di preciso il testo, ma ne ricordavo l'autore, e ricordavo come nel cosmo di cui egli parlava ci fosse un'entità suprema, un sovrano immondo e innominabile che, cieco e folle, incuteva timore in tutto l'esistente. L'esistenza degli esseri di tenebra sembrava aver dato improvviso credito e privilegio di veridicità a quelle che, fino ad allora, mi erano parse semplici storie e novelle dell'orrore.
Superata l'infanzia, non ero mai stato timoroso di entità e dei: uomo fra gli umani, umanista fra gli uomini, non consideravo la blasfemia una colpa, non più di quanto considerassi un peccato l'insulto a una qualsivoglia opera dell'ingegno umano. Per quanto le mie esperienze recenti mi avessero costretto ad ammettere la veridicità di almeno una di quelle favole nere, pure non sarebbe stato certo il rispetto per una divinità oscura a fermarmi: non ne temevo l'ira, non temevo di pronunciare il Suo nome invano, ma contavo sul fatto che esso fosse in grado di incutere timore alle entità che, in qualche modo, al Suo potere doveva l'esistenza loro e del proprio genitore.
Ero nella veranda del piano superiore di casa mia, a scrutare la strada illuminata appena da un lampione semifulminato, quando questa epifania mi colse, la rivelazione che forse esisteva un modo per tenere a bada le creature. D'improvviso seppi cosa potevo fare per combattere gli esseri d'ombra, e come lo potevo fare.
Fissando uno degli esseri, mi sporsi dal balcone; congiunsi le mani e poi le spalancai a formare la figura di un quadrato, prigione di quattro mura, le portai davanti al volto e, con voce tremante, sussurrai il nome del dio-che-non-è-un-dio attraverso il segno che stavo tracciando; il mio respiro divenne luce, un lampo abbagliante che scaturì dalle mani e andò a investire la creatura, sciogliendo la sua nera corazza e liberando il mondo dalla sua inquietante sembianza.
Il mio gesto folle e disperato aveva avuto successo, il nome del sovrano, del demone-dio muto, era stato sufficiente per colpire con l'anatema ultimo le progenie dell'ombra oscura e ingannatrice.
Ero euforico: ripetei lo stesso assurdo gesto e l'improbabile rituale in direzione di ogni altra entità che riuscissi a scorgere; sempre dal quadrato delle mie mani balenava un rapido lampo, sempre in quella luce accecante le ombre scomparivano per non mostrarsi mai più. In poco tempo, tutto il circostante fu libero da quelle creature e il cielo sembrò finalmente tornare a brillare diurno come non faceva più da non sapevo quanto tempo.
Non avevo ancora parlato a nessuno della mia scoperta, e fu con orgoglio e folle gioia che entrai dentro casa per informare i miei familiari del mio successo, per dire loro che l'assedio era spezzato, che la battaglia era vinta e che saremo stati finalmente in grado di difenderci, riconquistando agli esseri umani la città strappata dalle grinfie delle tenebre.
Lo stupore fu grande, così come lo scetticismo iniziale, ma ancor più grande fu la contentezza nel sapersi finalmente liberi. Ricordo che festeggiammo, ma non ricordo come; forse con uno di quei banchetti per cui la nostra città era giustamente famosa, quelle pantagrueliche tavolate a cui tante volte si era seduto, ospite d'onore, l'essere da cui la nostra disperazione aveva avuto origine.
Proprio per via di questa gioia, immane e festosa, il risveglio nell'incubo fu ancora più traumatico. I miei gesti avevano forse richiamato la luce e scosso le ombre, ma non erano stati capaci di annullare il nucleo di materia a cui si aggrappavano per infestare il nostro mondo.
La luce le aveva spaventate, ma ancora una volta le oscure creature risposero al richiamo del loro progenitore, e presero forma di incubo portando nuovamente le tenebre. Ancora una volta, alla pallida luce dei lampioni potevamo scorgere le loro sagome, ed essi erano ora dei giganti, ombre umanoidi di dimensioni inumane racchiuse nel nero brillante di un'armatura oscura.
Non sapevo, e non volevo sapere, se più entità si fossero coagulate in quei nuovi esseri, o se invece esse fossero cresciute nutrendosi degli euforici illusi usciti allo scoperto ai quali la mia apparente vittoria aveva indotto una vana speranza.
Ora le creature ci guardavano negli occhi, scrutavano le finestre delle nostre case con volti ciechi e beffardi, superavano con le spalle quelle balconate da cui ci eravamo sentiti sicuri a osservarle non visti. Ci barricammo nuovamente, e ci sentivamo sicuri, ma per quanto?
In maniera inattesa, uno degli esseri fece infine il passo successivo, e mostrò che non più era vincolato alle lunghe ombre sottili del terreno: con gesti lenti ma inarrestabili l'entità si arrampicò sul nostro balcone, il suo corpo nuovamente tornato a dimensioni umane, e con un incedere cupo si diresse verso una porta. Feci appena in tempo a serrarla a chiave che l'ombra della sua mano inconsistente era lì, ad armeggiare sulla fragile maniglia.
Ormai il gesto ritualistico di prima sarebbe stato inutile, ne ero certo.
Ero stato sconfitto, le mie risposte folli vane quanto le preghiere dei pochi tenaci credenti che ancora riponevano fede in una conclamata menzogna. Non c'era più spazio per l'inquietudine: la disperazione più completa mi attanagliava con tutta se stessa.
Era finita; io - e tutto il mondo con me - ero finito.
La salvezza giunse, alla fine, quasi posticcia e inattesa, imprevedibile. Non la fede, non la luce, non gli scongiuri poterono dissolvere definitivamente le creature, ma il più apparentemente innaturale dei fenomeni naturali: la radioattività.
C'era, nella città, una vecchia centrale nucleare, relitto di un'era energetica passata, fonte di rischi e preoccupazioni che solo il nuovo orrore era stato capace di farci dimenticare. La radiazione è onda e particella, come la luce; ma, a differenza della luce scaturita dal nome impronunciabile e dai miei gesti, le radiazioni dei materiali impropriamente accumulati presso la centrale si rivelarono capaci di sciogliere definitivamente l'esoscheletro degli esseri oscuri e di farne svanire le carni d'ombra.
Scorie radioattive in mano, quanti si erano in precedenza asserragliati nella centrale riconquistarono la città strada per strada, quartiere per quartiere. Assieme alla sua prole, scomparve sotto le onde radioattive anche l'enigmatico essere dal quale quello strano incubo aveva avuto origine.
Non ero stato io a salvare la città, anche se forse - mi dicevo - il mio impegno aveva suggerito ad altri la via da seguire.
Drammatizzazione e scrittura elaborata e citazionistica sì, questo è stato il mio sogno della scorsa notte. L'ennesimo sogno inquietante, ma il primo realmente orrorifico che ho avuto da diverso tempo a questa parte. Le reminiscenze lovecraftiane direi che sono palesi, motivo per cui ho cercato in alcuni tratti di scimmiottare proprio la prosa del Solitario di Providence, ma il tocco comico del flash con le mani per dissolvere i mostri è un chiaro riferimento all'altra ispirazione del sogno, qualcosa di dannatamente giallo, televisivo e pop.
Se la commedia è quel genere letterario in cui la situazione, inizialmente critica e disperata, va in direzione di un ribaltamento e di una felice risoluzione, allora suppongo che il mio possa essere definito un sogno comico.
Al di là di tutto, potrebbe offrire un'ottima ispirazione per diverse avventure con diversi giochi di ruolo.
O, se non altro, potrebbe essere una buona lettura per una pallosissima domenica pomeriggio di fine agosto.
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